Per essere femministi bisogna essere per forza di sinistra?

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Il femminismo è un movimento di natura intrinsecamente politica. Lo è perché nasce dalla volontà di modificare la società, smantellarne le strutture patriarcali e proporre un’alternativa più equa e svincolata dagli stereotipi di genere. Nel perseguire il suo intento, quindi, analizza l’assetto della vita collettiva, lo critica e lo destruttura per arrivare a cambiarlo. Ci sono molti e diversi modi per fare politica: dall’attivismo, alla cultura, all’informazione e il femminismo passa attraverso ognuno di essi. Il movimento, inoltre, entra inevitabilmente in contatto anche con la politica istituzionalizzata, quella dei partiti e delle fazioni politiche in senso proprio, con cui ha da sempre una relazione complicata. Oggi, dato che il movimento è tornato a essere presente nella discussione pubblica, può essere interessante chiedersi come si leghino femminismo e partiti, e se il femminismo si riconosca in un particolare schieramento piuttosto che in un altro.

In Italia le donne entrano nella politica istituzionale nel 1945, con il riconoscimento del diritto all’elettorato attivo e passivo, ma è solo successivamente, negli anni Settanta, che diversi gruppi femministi iniziano a svolgere una profonda indagine teorica sul loro rapporto con la politica, i partiti e le istituzioni, chiedendosi in che misura e con quali modalità il movimento possa inserirsi efficacemente in tali dinamiche. Secondo Paola di Cori, storica, filosofa e femminista, a questo proposito si possono identificare due diverse fasi. La prima, dal 1966 al 1974, vede le femministe partire dal confronto esclusivo con le donne dei propri gruppi per aprirsi gradualmente agli “esterni”, cioè agli altri collettivi, ai gruppi extraparlamentari e ai partiti; la seconda fase, invece, dal 1975 al 1977, vede “l’affermazione pubblica di massa del femminismo” e una maggiore apertura alle istituzioni. Nel primo periodo il sistema politico e istituzionale viene fortemente criticato e diversi gruppi femministi (come Demau, fondato nel 1966, e Rivolta Femminile, di pochi anni successivo) sono contrari ad assoggettarsi a un meccanismo considerato patriarcale. Il rapporto con la pratica politica, secondo questi gruppi, va riconfigurato in modo radicale, dal momento che molti movimenti politici a maggioranza maschile non considerano le problematiche femminili degne di ottenere uno spazio nel dibattito pubblico al pari di altre questioni considerate prioritarie come, ad esempio, la lotta di classe. La politica deve quindi ripartire dall’analisi del proprio vissuto come donne (tramite l’autocoscienza), per trasporlo, poi, su un piano più ampio, che mira al cambiamento senza però passare necessariamente attraverso le dinamiche partitiche. Infatti, “il personale è politico”, come recita il famoso slogan nato proprio in questi anni (secondo alcuni da attribuirsi alla femminista statunitense Carol Hanisch), e le necessità che emergono nei gruppi di riflessione sull’identità femminile, lungi dal rappresentare mere richieste individualistiche, vengono inquadrate dalle femministe nel loro collegamento con la sfera pubblica. “La politica è dunque, in questa accezione, la risposta concreta, umana e non burocratica, a un bisogno diffuso e urgente”, scrive, a tal proposito, la storica Fiamma Lussana                                                                                                                                                              DI Elisabetta Moro