Perché i monopoli naturali devono tornare in mano allo Stato

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ll monopolio naturale è una condizione di mercato particolare dove paradossalmente è più efficiente che ci sia un impresa monopolista piuttosto che molte imprese concorrenziali. Questo accade perchè i costi fissi (per le infrastrutture) sono talmente elevati che riescono ad essere ammortizzati solo se una singola impresa produce l’intera quantità richiesta dal mercato.

È il concetto di economie di scala che in tali settori raggiunge la massima ampiezza, cioè la capacità di portare al minimo i costi medi di produzione spalmando i costi di produzione su grandissime quantità di bene o servizio venduto. Solitamente si fa riferimento a settori che riguardano le reti infrastrutturali. Ad esempio, se ci fossero tante piccole imprese nel settore ferroviario, chi si accollerebbe di posizionare 100km di binari? Nessuna delle piccole imprese avrebbe la forza economica per farlo, è dunque necessario che ci sia un impresa monopolista.

Ecco perchè liberalizzare settori in monopolio naturale non ha mai portato né mai porterà beneficio, poiché va contro qualsiasi ragionevolezza economica. Solo con la consapevolezza economica che una sola impresa disporrà di tutti i ricavi che deriveranno dall’utilizzo dell’infrastruttura unita alla capacità di minimizzare i costi di produzione per le ragioni sopra spiegate, si potrà produrre il bene o servizio in questione.

Ora, al fatto che tali settori richiedono necessariamente un monopolio, uniamo il fatto che in essi si producono beni e servizi necessari allo svolgimento della vita di cittadini e imprese. Si può comprendere allora che un impresa monopolistica produttrice di beni e servizi necessari, qualora fosse gestita secondo la logica privatistica della massimizzazione del profitto e non secondo la logica della massimizzazione del benessere pubblico, provocherebbe gravi perdite di benessere sociale e grandi profitti al gestore privato.

Ecco perchè la privatizzazione dei monopoli naturali è pura follia. Sono settori che spesso producono importanti profitti i quali, una volta distribuiti agli azionisti privati, andranno a finire in chissà quale paradiso fiscale. Quei profitti invece vanno reinvestiti per minimizzare le tariffe e massimizzare la qualità del servizio e i livelli occupazionali.

A tal proposito, chiusa la stagione delle privatizzazioni, il 10 febbraio 2010 la Corte dei Conti ha pubblicato uno studio all’interno del quale esprime un giudizio sull’efficacia di tale strumento. Il giudizio presenta evidenti note negative. Viene riscontrato che si è verificato un aumento della redditività delle aziende privatizzate e dei dividendi distribuiti, dovuto però, in specie nel secondo decennio “non alla maggiore efficienza quanto piuttosto all’incremento delle tariffe al quale non ha fatto seguito alcun progetto di investimento volto a migliorare i servizi offerti”. E anche nei casi in cui questi settori non producano profitti date le condizioni sfavorevoli del mercato, rivestono comunque un importanza strategica talmente elevata che affidarne la gestione ad un privato provocherebbe da un lato falle nella sicurezza nazionale, dall’altro un’evidente riduzione delle leve di politica industriale.

Giuseppe Petrilli, presidente dell’IRI per vent’anni (dal 1960 al 1979) coniò la “teoria degli oneri impropri” spiegando con grande lungimiranza che la cittadinanza è ben disposta ad accettare che una grande azienda di Stato incorra in perdite economiche (appunto gli oneri impropri) purché il beneficio che la collettività ottiene dalla produzione pubblica di quel bene, rispetto a quella privata, superi di gran lunga tali oneri. Cosa che, come la storia economica ci insegna, è puntualmente accaduta.

Queste sono alcune delle ragioni per cui riteniamo sia fondamentale che lo Stato mantenga e aumenti la sua presenza dentro le aziende operanti in settori in monopolio naturale come energia, autostrade, linee ferroviarie, cavi telefonici, trasporto acqua potabile, trasporti aerei.