Politiche per il lavoro e per il sud: il caso Marcianise e non solo

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La vicenda JABIL Circuit di Marcianise, che annuncia 350 licenziamenti su 700 lavoratori presenti sul sito casertano, non è altro che l’ennesimo evento in una triste serie di crisi aziendali che hanno eroso, con impressionante continuità, il tessuto industriale e manifatturiero della Provincia di Caserta.

La conversione industriale del territorio di Terra di Lavoro, operata negli anni 60 e 70, era riuscita a concentrare le eccellenze dell’industria dell’elettronica, meccatronica e delle telecomunicazioni in una zona del Paese che negli anni precedenti era stata considerata come unicamente votata all’agricoltura: un piano di investimenti pubblici, pilotato dalla allora Cassa del Mezzogiorno aveva portato tutti i maggiori gruppi industriali mondiali ad avere impianti manifatturieri in quella che sarebbe stata rinominata la Brianza del Sud.

Tante le cause che hanno anticipato e aggravato la crisi che negli ultimi anni ha colpito l’Italia con un impatto devastante sul gioiello tecnologico del casertano. Tra le tante la totale assenza di politiche di sviluppo industriale, sia a livello imprenditoriale che istituzionale; l’incapacità, spesso accompagnata da mancanza di volontà, di riuscire ad avere un’idea di pianificazione industriale a lungo termine; una gestione spesso clientelare dei posti di lavoro da parte dei potentati politici locali.

I gruppi industriali del “periodo d’oro”, che avevano puntato sulla manifattura negli stabilimenti casertani – certamente più conveniente per i salari più bassi dei lavoratori del Sud – lasciando i loro Headquarters nelle regioni italiane settentrionali o nei paesi esteri d’origine, alle prime difficoltà e/o incertezze di mercato, hanno chiuso o hanno spostato le loro sedi altrove.

A ciò si è andata ad aggiungere la beffa che tutti gli investimenti pubblici concessi per gli insediamenti industriali non sono mai stati considerati dai governi che si sono susseguiti come vincolanti per le aziende che li hanno ricevuti, legittimando un processo di desertificazione del polo industriale marcianisano.

Questo processo, impensabile fino a qualche anno fa, ha profondamente mutato le aree industriali della nostra provincia. Le continue crisi aziendali hanno abbattuto drammaticamente i livelli occupazionali e i capannoni industriali, che un tempo venivano visti come luoghi in cui costruirsi il futuro, si sono troppo spesso trasformati in barricate su cui combattere battaglie di resistenza, a difesa del proprio lavoro e della propria dignità.

Negli ultimi anni la situazione si è ulteriormente aggravata anche per un problema di carattere nazionale: un Paese di grande tradizione industriale come l’Italia non può resistere alla resa incondizionata della politica che rinuncia a pensare lo sviluppo industriale nazionale per più di vent’anni.​​​​​Ci si è accontentati di divenire terra di conquista, accettando qualsiasi condizione purché si venisse ad investire, senza regole, senza limiti. Pezzi interi di industria italiana sono stati svenduti alle multinazionali d’oltreoceano, statunitensi o asiatiche. Sotto il ricatto del disimpegno, della dismissione, dell’abbandono del territorio italiano, sono stati chiesti continui sacrifici ai lavoratori. Cancellate tutele e debellati diritti ottenuti dopo anni di lotta, a fronte di promesse che oggi vengono sistematicamente disattese.

A Marcianise la Jabil Circuit, a Napoli la Whirpool, a Taranto la ArcelorMittal…e così via.

E sono solo tre casi che hanno contrassegnato le ultime settimane. La risultante della svendita industriale del paese e dei suoi lavoratori nonché dell’assenza totale dello Stato.

Affinché il lavoro riprenda ad avere dignità c’è bisogno che la politica e le istituzioni ritornino a ricoprire il ruolo a cui sono chiamate:

– servono politiche di sviluppo economico nazionale in cui non si rincorrano solo le crisi, in cui i rappresentanti ministeriali giochino un ruolo chiave per l’individuazione di settori strategici per lo sviluppo del Paese in cui investire in maniera mirata, senza dispersione dei pochi fondi pubblici in mille rivoli;

– serve un Ministero dello Sviluppo Economico che non sia solo il luogo fisico in cui ratificare le situazioni di crisi, cercando di mettere d’accordo parti datoriali e parti sindacali, ma che riconquisti il ruolo di guida e di garanzia dei lavoratori italiani nelle vertenze, affinché il diritto al lavoro e quello alla libera impresa siano eticamente rispettati, nel solco della Carta Costituzionale;

– serve un cambio di passo della Sinistra, che si ricordi da che parte stare quando all’iperliberismo della globalizzazione si contrappongono i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, schierandosi non solo per la conservazione di quanto rimasto ma per riprendere una stagione di lotta e di riconquista di una Carta Universale dei Diritti dei Lavoratori;

– serve un’armonizzazione delle politiche europee del lavoro che vada a disinnescare la concorrenza interna tra gli Stati membri della UE, definendo uguali diritti e salari così da impedire delocalizzazioni di interi settori industriali verso zone a baso costo;

– serve un forte investimento nell’istruzione dei cittadini italiani perché possano avere le conoscenze, gli strumenti e le opportunità di giocare la sfida moderna del lavoro, in cui l’innovazione e la formazione continua sono un elemento fondamentale per competere;

Uno Stato può essere vicino ai suoi cittadini solo quando si occupa di preservarne la dignità.

“Si può considerare veramente libero un uomo che ha fame, che è nella miseria, che non ha lavoro, che è umiliato perché non sa come mantenere i suoi figli e educarli? Questo non è un uomo libero”.