Povera, diseguale, con meno lavoro: così il Covid cambia l’Italia

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“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” dice il primo articolo (sotto il titolo “Principi fondamentali”) della Costituzione. Siamo ancora lì: al lavoro, a un diritto che per molti italiani non esiste. O esiste male: tradito, oscurato, sotto continuo attacco, piegato alle tentazioni della criminalità. Un bersaglio anche per il morbo malefico che ci affligge ormai da quasi un anno, il morbo che ha ucciso migliaia di persone e che è riuscito in pochi mesi ad aggiungere veleno al lavoro, già per conto suo avvelenato, per miseria delle retribuzioni, elusione dei contratti (tredici milioni di lavoratori attendono il rinnovo), mancanza di stabilità, irregolarità di ogni genere, colpiti in tanti, dai fattorini ai giornalisti (al di là delle apparenze televisive).
Il lavoro è il cuore della crisi

L’85 per cento degli italiani ritiene, dopo l’infatuazione delle partite iva, della fantasia imprenditoriale, dopo l’esaltazione dell’intraprendenza, che il grado di protezione del lavoro e dei redditi sia la chiave per la salvezza, come rileva il Censis, l’istituto di ricerca socio-economica fondato nel 1964, che ci spiega, nel suo rapporto annuale, come, sessantasette anni dopo la promulgazione della carta costituzionale, sia sempre nel lavoro e attorno al lavoro, il cuore della nostra crisi e del carattere della nostra società, divisa tra i garantiti dal reddito fisso, dalla pensione, da una ricca o ricchissima rendita e chi – leggiamo questa espressione- è letteralmente “scomparso” in epoca Covid: cinque milioni “di persone che ruotavano intorno ai servizi e che hanno finito per inabissarsi senza rumore”.

Il ritratto è impietoso: Italia piccola, chiusa, in ansia, disposta a tradire quei valori che ne hanno segnato la storia dal dopoguerra ad oggi. Il 57,8 per cento degli italiani è disposto a rinunciare alle libertà personali in nome della tutela della salute collettiva, il 38,5 per cento è pronto a rinunciare persino ai propri diritti civili per un maggiore benessere economico, accettando limiti allo sciopero, alla libertà di opinione e alla appartenenza a sindacati e associazioni. Nell’era dei consumi, il benessere materiale, suggestione o realtà, pubblicità o consapevolezza di una condizione, pesa per molti più della democrazia.

Il nostro Paese è una ruota quadrata

Il Covid è la coda di tanti cambiamenti, di tante crisi, di tanti disastri. Quanti primati ha perso il nostro paese, dall’avvio della deindustrializzazione mezzo secolo fa ad oggi, agli anni ormai della rivoluzione tecnologica? Quanti ritardi ha collezionato? Quanto si è allargata la celeberrima forbice tra poveri e ricchi e più che ricchi? Italia “spaccata”, la descrive il Censis. Un mondo delle disuguaglianze e le disuguaglianze non aiutano il paese a crescere: secondo una bella immagine del Censis, l’Italia è una ruota quadrata che non gira, che avanza a fatica, frenata ancor più dalla paura, che si somma a quella che potrebbe definirsi “mancanza di solidarietà”.

Gli strepiti contro la patrimoniale ne sono una dimostrazione (anche se vengono giustificati da alcune parti chiamando in causa la montagna dell’evasione fiscale, altra voragine nelle strategie della sinistra). Non si tocca nulla, non si muove nulla, per il terrore di perdere qualcosa: conservazione a scapito di qualsiasi rischio di innovazione. I soldi parlano: rispetto al dicembre 2019, nel giugno 2020 la liquidità (monete, biglietti e depositi a vista) nel portafoglio finanziario degli italiani ha registrato un incremento di ben 41,6 miliardi di euro (più 3,9 per cento in termini reali). Non era mai successo prima: nel 2016, l’anno in cui si raggiunse il picco più alto, la liquidità in più si fermò a 25 miliardi. Nel complesso il portafoglio finanziario degli italiani ha superato i quattromila 400 miliardi, qualcosa di immobile che potrebbe invece davvero risultare il volano di una formidabile ripresa. Come non lo sono invece i ventisei miliardi distribuiti tra quattordici milioni di beneficiari: troppo pochi per colmare le perdite, troppo pochi soprattutto per rischiarare orizzonti. Solo il diciassette per cento dei titolari di impresa ritiene che le misure di sostegno siano sufficienti a contrastare le conseguenze economiche dell’emergenza. Vedremo. La speculazione è dietro l’angolo e questa il Censis non la conteggia.

I bonus sono bene accolti, soprattutto dai giovani (83,9 per cento). Anche il 65,7 per cento degli anziani li valuta positivamente, ma per il 25,1 per cento si tratta un meccanismo che può generare dipendenza, mentre per il 18,1 per cento si rischia di mandare fuori controllo il debito pubblico.
Scuola e sanità sono altre voci di un sistema che zoppica: di nuovo si concretizza la distanza tra Nord e Sud, la persistenza di una questione meridionale che si perpetua dall’unità d’Italia.

A reggere sono state le Reti, a cominciare da quella che ha permesso di continuare a lavorare e studiare a moltissime persone, internet: l’87 per cento dei cittadini ha dichiarato di avere utilizzato nell’emergenza la connessione fissa a casa e che è stata sufficiente.

Ha ragione il presidente del Censis De Rita, quando invita a rimettere mani all’aratro, per trovare la forza di guardare avanti, “arando dritto”. Un invito alla classe dirigente italiana. Soprattutto un invito a uno sguardo lontano, ad un orizzonte oltre i cenoni, lo sci, oltre i colori rosso arancione giallo delle nostre regioni, oltre un perenne conflitto d’interessi, anche quello che si genera tra i cosiddetti “governatori” e lo Stato, che è pur sempre centrale.                                                                                                                 Di Oreste Pivetta