Produttività, salari, occupazione

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Federico Giusti, nel suo articolo della settimana scorsa, replicando ad alcune osservazioni a proposito della produttività del lavoro, ci fornisce alcuni elementi di riflessione importanti e condivisibili. Intendo con queste note integrare il suo discorso esplicitando maggiormente alcune considerazioni.

Nei primi passaggi Giusti specifica che non esiste una produttività dei fattori ma solo la produttività del lavoro e della natura. In particolare che sarebbe sbagliato parlare di produttività del capitale. Se qualche lettore è rimasto sorpreso da questa affermazione, che poi è quella di Marx, occorre spiegare meglio la cosa.

Il valore delle merci è dato, secondo la teoria marxiana, cui aderiamo, dal tempo di lavoro astratto socialmente necessario a produrle. Tale tempo di lavoro si suddivide in lavoro vivo, quello che viene effettivamente speso per la produzione finale di una data merce, e lavoro morto, cioè speso in processi produttivi anteriori e cristallizzato nel valore dei mezzi di produzione acquistati dal capitalista (macchinari, materie prime ecc.). Questo lavoro morto viene trasferito, senza nessuna variazione del suo valore (per questo viene denominato capitale costante), grazie al lavoro vivo che, mentre consuma i mezzi di produzione e con ciò il loro valore, produce nuove merci utili (carattere utile del lavoro concreto), vendibili, permettendo di inglobarvi il valore ereditato dai precedenti processi produttivi, che esso così non viene perduto. Contemporaneamente, spendendo nuovo lavoro astratto, aggiunge nuovo valore ed è quindi l’unico fattore produttivo.

Che poi l’operare della concorrenza determini prezzi di mercato che si discostano dai valori è solo una complicazione in più, ma il discorso resta valido se si può dimostrare (e, contrariamente all’opinione degli economisti più blasonati, è stato dimostrato), che nel sistema economico nel suo insieme, la somma dei prezzi corrisponde alla somma dei valori prodotti.

È facile prevedere un’obiezione: ma è grazie alle potenze produttive (tecnologia ecc.) incorporate nei mezzi di produzione che aumenta la produttività. Vero. Prescindendo dagli aumenti di produttività dovuti solo a intensificazione dei ritmi di lavoro e aumento dello sfruttamento, che non sono certo un’eccezione, la produttività del lavoro cresce grazie a questi miglioramenti tecnologici, a un sistema produttivo che ha nel tempo accumulato saperi, tecniche e materiali, frutto tutto ciò di lavoro passato di cui il capitale si è appropriato: di lavoro non retribuito o, che è un altro modo per denominarlo, del plusvalore accumulato. Ma si tratta comunque dell’accrescimento della produttività del lavoro attuale, grazie alla produttività del lavoro passato.

Un’innovazione tecnologica permette, a chi la introduce per primo, di produrre o nuove tipologie di merci o le stesse merci di prima, ma con meno lavoro. In questo modo diminuisce, per l’innovatore, il valore individuale della merce. Ciò gli permette di vincere la concorrenza con gli altri capitalisti e di appropriarsi, vendendo le merci a poco meno del loro valore di mercato, di un extra profitto o di conquistare nuove quote di mercato, potendo così aumentare il suo fatturato.

Non appena l’innovazione si generalizza per gran parte dei produttori di quella merce abbiamo un risultato diverso. Le merci vengono prodotte con meno lavoro, valgono meno. Basti vedere, per esempio, i prodotti dell’informatica e delle telecomunicazioni. Se le merci in questione rientrano fra quelle necessarie alla riproduzione della forza-lavoro, diminuisce il valore di quest’ultima. A parità di durata della giornata lavorativa, diminuisce la frazione di essa destinata a riprodurre il valore della forza-lavoro e aumenta la frazione che costituisce pluslavoro (plusvalore relativo). Se invece la merce non rientra fra i consumi della forza-lavoro, si ha semplicemente la riduzione del valore del prodotto. In entrambi i casi, il plusvalore estratto e realizzato tende a diminuire in rapporto al crescente valore del capitale costante impiegato nel complesso delle imprese (legge della caduta tendenziale del saggio del profitto).

Quindi, ogni innovazione, tende a ridurre il lavoro necessario alla produzione di una merce e quindi determina una riduzione della forza-lavoro impiegata e un aumento di quella che va a ingrossare le fila dell’esercito industriale di riserva. Questo proletariato in cerca di occupazione esercita una pressione sul mercato del lavoro (un eccesso di offerta di braccia e cervelli) che determinerà una riduzione dei salari.

La possibilità che l’aumento della produttività, attraverso la conseguente riduzione dell’occupazione, determini una riduzione dei salari anziché un aumento, è certificata dagli stessi economisti borghesi. Un modello empirico che va molto di moda è la cosiddetta curva di Phillips. Essa, nella versione divulgata, descrive una relazione inversa tra i tassi di disoccupazione e i corrispondenti tassi di inflazione.

William Phillips, tuttavia, non affermò esattamente questo tipo di relazione ma quella tra la disoccupazione e l’aumento dei salari. Fu il solito Milton Friedman a teorizzare che se aumentano i salari, sulla base della teoria monetarista di cui lui era il capofila, sarebbe aumentata l’inflazione. E quindi, per la proprietà transitiva, si ha: meno disoccupazione -> più salari -> più inflazione. Ed è questa affermazione – che dipende dal fatto che nella teoria monetarista non c’è spazio per la redistribuzione, cioè non si ammette che i salari possano aumentare a scapito dei profitti, ma possano solo generare inflazione – la clava con cui gli economisti mainstream hanno abbattuto le politiche keynesiane. Infatti ogni politica volta a ridurre la disoccupazione al di sotto di quella “naturale” (naturale! Come Dio l’ha creata, non un fatto sociale) si tradurrebbe in aumento dei salari e dell’inflazione e quindi i salari reali e l’occupazione ritornerebbero ai livelli precedenti, lasciando solo inflazione.

Noi invece utilizziamo la formulazione originale di Phillips e cioè l’incontrovertibile relazione negativa, verificata da mille ricerche statistiche, che esiste tra salari e disoccupazione. Senza scomodare troppe formulazioni sofisticate, lo aveva ben chiaro Marx quando parlò dell’esercito industriale di riserva.

Se invece, nonostante l’accresciuta produttività, vogliamo mantenere il numero dei lavoratori occupati, aumentando il prodotto per unità lavorativa, deve aumentare anche la quantità di merci prodotte e, se i salari non vengono incrementati in relazione a questa accresciuta produttività, si determinerà una sovrapproduzione in rapporto alle capacità di spesa dei lavoratori. Ma tale incremento dei salari, caldeggiato dagli economisti keynesiani, se si prescinde dalla breve parentesi della stagione “riformista” (sostanzialmente dal secondo dopoguerra alla fine degli anni 70), non è avvenuto. Il motivo è che proprio quando esso si renderebbe necessario a causa della disoccupazione, i rapporti di forza fra le classi pendono ancor più in favore dei capitalisti.

Oltretutto, molte innovazioni tecnologiche sono orientate proprio a spostare questi rapporti di forza, a disarmare, per esempio, la capacità dei lavoratori di sabotare la produzione o a disgregarli in mille modi (partite Iva, Gig Economy ecc.). Appare quindi improbabile che i capitalisti siano disposti a concedere gli aumenti, visto che hanno a che fare con una diminuzione del saggio del profitto e con una classe lavoratrice più debole. Non considerare tutto ciò e pensare a miglioramenti all’interno del modo di produzione capitalistico che non siano dovuti al conflitto di classe è un limite degli economisti keynesiani.

È ineccepibile quindi l’asserzione di Giusti che non può esserci un automatismo fra aumento della produttività e aumento dei salari. E infatti le statistiche degli ultimi decenni, caratterizzati da politiche liberiste, indicano una drastica diminuzione della quota del reddito nazionale destinata ai lavoratori, nonostante si sia verificato un aumento della produttività. E tale riduzione è superiore rispetto a quanto ci dicono le statistiche, perché le stesse politiche liberiste hanno determinato anche una riduzione dei salari indiretti e differiti (servizi pubblici e pensioni).

Se l’aumento della produttività è finalizzato alla riduzione del lavoro necessario, e quindi del valore delle merci, è evidente che difficilmente tale aumento può essere rilevato correttamente basandosi sul valore monetario della produzione. Occorrerebbero altri indicatori e anche a questo proposito non possiamo che concordare con Giusti.

In un altro passaggio egli ammette che negli ultimi anni la produttività in Italia sia andata peggio che nei paesi europei maggiormente sviluppati. E ciò è vero. Secondo alcune statistiche il suo andamento è addirittura negativo negli ultimi anni. Per esempio secondo i dati Ameco, il database macroeconomico della Commissione Europea, nel primo decennio di questo secolo il prodotto interno lordo per addetto è diminuito in Italia del 1,01% a fronte di un aumento medio di oltre il 4% nei altri paesi europei esaminati (Germania, Francia, Spagna). Tralasciamo qui di ripetere la consueta osservazione sulla significatività di simili rilevazioni e anche il fatto che questa statistica certifica il prodotto per addetto, e non per ora lavorata, mentre conosciamo il pullulare di contratti atipici e part-time.

Se diminuiscono le ore lavorate per addetto, non c’è da meravigliarsi che diminuisca anche il prodotto per addetto. Se la produzione avviene con lavoratori precari, ci saranno meno possibilità di qualificarli e di renderli più produttivi. A prescindere da tutto ciò rimane il fatto che in Italia siamo andati peggio. Ma, esaminando più attentamente lo stesso database, scopriamo che nei due decenni precedenti l’Italia è andata meglio degli stessi paesi. Il prodotto pro-capite infatti è cresciuto in quel ventennio del 36% in Italia contro il 29% in media negli altri paesi e, nonostante il peggioramento dell’ultimo decennio, la produttività in Italia si attesta ancora sulla media europea, come si può vedere dal seguente grafico ricavato dai dati Ocse.                                                                                                                                 fonte