Regionalismo differenziato, le ragioni per continuare a dire no

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l regionalismo differenziato, con le richieste di Emilia, Lombardia, Veneto, è ancora in piedi e non accenna a scomparire o ad affievolirsi. O a regolarsi in maniera “perequativa” e “democratica”.

Grande è stato il lavoro di accademici, economisti, costituzionalisti, intellettuali, giornalisti, in piccolissima parte anche nostro, che ha sicuramente contribuito a mettere a nudo alcune situazioni e pericoli gravissimi (istituzionali, economici, di civiltà e solidarietà) e rallentare la precipitosa corsa verso una secessione dei ricchi, innescata dalla riforma del titolo V della Costituzione del 2001, ma resa possibile e operativa nel 2018 da un governo di centro-sinistra (presidente Gentiloni), con un colpo di mano a pochi giorni dalle elezioni che avrebbero spazzato via la maggioranza di centro-sinistra, per consegnarla poi a una “strana” alleanza 5S-Lega, con un accordo sottoscritto con ciascuna delle tre regioni richiedenti “autonomia”.

Autonomia e SOLDI. Su questa questione è bene essere chiari subito: se dapprima i presidenti di Lombardia e Veneto dichiaravano apertis verbis che obiettivo delle richieste era poter gestire “i propri soldi”, al contrario di quello che diceva il presidente dell’Emilia-Romagna, ora tutti sostengono che NON chiedono un centesimo in più di quello che già ricevono. Su questo punto è bene chiarire, perché c’è una doppia ambiguità.

La prima. Studi di Ministeri, Agenzie, Svimez, eccetera mostrano come ciò NON possa corrispondere a verità. Tra l’altro, le richieste ad esempio dell’Emilia riguardano (rimanendo nel solo campo dell’istruzione): garanzia e certezza di finanziamenti nel corso di anni, per programmare con tranquillità e certezza di realizzazione interventi infrastrutturali (edifici, manutenzione, costruzione, eccetera); adeguato corpo insegnante per eliminare le cosiddette classi pollaio (cioè super-affollate di studenti); organizzazione e attribuzione della sede di insegnamento a tutti gli insegnanti entro l’inizio dell’anno scolastico, in modo da
evitare lunghe “vacanze” di personale, balletti di trasferimenti e riposizionamenti, eccetera, per assicurare fin dal primo giorno un sereno e proficuo anno scolastico agli studenti e alle famiglie.

Qualcuno si potrebbe chiedere (e Bonaccini stesso lo fa, in maniera retorica): perché queste richieste non vanno bene? Perché potrebbero, secondo alcuni, “spaccare” ulteriormente l’Italia, tra regioni ricche e regioni povere, tra Nord e Sud? La risposta è semplicissima e immediata: perché queste richieste le regioni le avanzano esclusivamente per loro stesse! E al diavolo tutte le altre! Senza contare che avere garanzie di finanziamenti, nel caso in cui i soldi non ci siano, significa toglierli ad altri o aumentare il debito; stabilire un congruo numero di insegnanti nella regione significa toglierli ad altre, oppure assumerne in più e aumentare il debito. Quindi sì: Veneto, Lombardia, Emilia, chiedono più soldi!

La seconda. Qui l’affermazione, ancorché fosse vera, nasconde un sottile “inganno”: mantenere i finanziamenti di cui godono ora, la cosiddetta “spesa storica”, significherebbe non arrivare mai a quella perequazione prevista per legge, e principio costituzionale ineludibile. Stiamo perdendo, noi stiamo perdendo, per “paura” o per “vigliaccheria”, per errato calcolo utilitaristico,
su di un terreno che invece dovrebbe vederci decisamente all’attacco… e vincenti! Bisogna incalzare il governo, di cui pure siamo parte, su queste questioni.

Non si capisce bene, infatti, se nel governo prevalga una linea-Provenzano (di critica, ancorché a denti stretti, del regionalismo differenziato, del rischio di allargamento del gap Sud-Nord, e di critica di tutto l’iter, con riunioni “segrete”, solo ed esclusivamente tra governo e rappresentanti di ciascuna regione “secessionista”, senza documenti a disposizione non solo della opinione pubblica, ma nemmeno degli addetti ai lavori) oppure una linea-Boccia (possibilista, che dichiara che l’autonomia differenziata si farà, che si farà con l’accordo della Lega, che in una commissione su questo tema chiama, sì, l’economista Gianfranco Viesti, inventore della fortunata locuzione “secessione dei ricchi”, ma anche Maroni, leghista, ex presidente della regione Lombardia, e Bertolissi, costituzionalista, consulente del leghista Zaia, presidente della regione Veneto).

Ma, si dice, si devono stabilire i LEP (i livelli essenziali delle prestazioni), una soglia per quantità e qualità di “servizi” offerti, al di sotto della quale NON si potrà scendere, in nessuna regione, in nessun comune d’Italia. Dice bene Massimo Villone: bisogna vigilare. Già, perché i LEP NON sono garanzia di uguaglianza, ma solo garanzia contro l’eccesso di disuguaglianza. Dove si colloca la soglia, al di sotto della quale si stabilisce uniformità e uguaglianza, ma sopra la quale si consente diversità e disuguaglianza? E’ una scelta TUTTA POLITICA, soggetta a variabili al momento non ipotizzabili e soprattutto non controllabili.

Del resto, ad esempio, la cosiddetta legge sul federalismo fiscale, che riguarda i Comuni, voluta da Calderoli (L. 42/2009) stabilisce varie cose, ad esempio una perequazione nei confronti dei territori “più poveri”. Sappiamo tutti come è stata applicata: in sede di ANCI i Comuni hanno deciso di applicare la perequazione… fino a un 45%; e per 10 anni si stima siano stati sottratti, contra legem, alle aree più povere (la stragrande maggioranza nel Sud) qualcosa come 60 miliardi l’anno. Per 10 anni fanno 600 miliardi. Un vero e proprio enorme furto!

La recentissima bozza di legge quadro presentata dal ministro Boccia alle Regioni, indica che si costituirà una struttura “commissariale”, con il potere di decidere i LEP; purtroppo queste indicazioni dovrebbero essere rese ENTRO UN ANNO dalla definizione degli accordi tra governo-parlamento-regioni; cioè un accordo viene fatto PRIMA di sapere su quali basi si dovrà fondare. Perché non aspettare la definizione di LEP e fabbisogni standard, e POI sottoscrivere le intese? Insomma, la differenziazione di materie e funzioni e delle relative risorse avverrà al buio, come ha autorevolmente scritto il costituzionalista Alberto Lucarelli.

E, ancora, sempre dalla bozza, non si riesce a capire bene se dopo il parere di alcune Commissioni parlamentari, il testo, tornato all’esame di governo-“ciascunaregionerichiedente”, DOVRA’ ESSERE MODIFICATO SECONDO I PARERI PARLAMENTARI OPPURE NO; è certo, invece, perché scritto nero su bianco, che per quanto riguarda la definizione di LEP, fabbisogni standard, eccetera, da stabilire con decreto, dopo il parere delle Commissioni, il governo può, motivando la sua decisione, disattendere tale parere. Infine, stiamo parlando di una legge quadro: la definizione puntuale e particolareggiata di ogni fase, di ogni azione, sarà fatta per decreto o “legge governativa”: come sappiamo, il diavolo si nasconde nei dettagli, sui quali, pare, il Parlamento non potrà quasi nulla!

I nostri parlamentari Federico Conte, con una dichiarazione, e Vasco Errani, in sede di Commissione per l’attuazione del federalismo fiscale, hanno immediatamente individuato nell’inversione dei tempi, “oscura” e “incomprensibile”, il difetto maggiore della bozza Boccia: tra l’altro, lo stesso ministro, appena insediatosi, ebbe a dire: prima i LEP, poi le intese; ora ha cambiato idea: intese subito, i LEP entro 12 mesi. E se non dovessero essere pronti? (Difficile, secondo Boccia, ma non impossibile, visto che lo ha previsto, e scritto nero su bianco). Si considera la spesa storica, quella che finora ha privilegiato in gran parte il Nord e “punito” in larga parte il Sud. Tempistica e risultato identico a quello che chiedono le regioni “secessioniste”. Un capolavoro. Sperando che in fase di discussione di questa bozza si riesca a modificare qualche passaggio più “pericoloso”, vorremmo ricordare/auspicare un’ultima cosa.

Vogliamo chiedere, senza pensare alle elezioni regionali, di discutere, con calma, con il giusto tempo a disposizione, in Parlamento, nel Paese, con studi e documenti, la fondatezza della richiesta di autonomia su materie strategiche come l’istruzione, le infrastrutture autostradali e ferroviarie, navali ed aeroportuali, la gestione di beni ambientali e culturali? E, ancora, perché non farsi (insieme con regioni come l’Emilia, la Campania, la Puglia), da forza di sinistra, promotori di una rivisitazione dei concetti di autonomia, di autonomie; di una discussione sulla utilità di regioni e di regioni a statuto speciale, nella convinzione che non è certo un bene passare da un centralismo nazionale; a un centralismo regionale; storicamente, culturalmente, praticamente, sono i comuni (o agglomerati territoriali di comuni – guarda un po’, si chiamano province! – con stesse necessità, esigenze, possibilità effettiva di gestione comune di beni e servizi) ad essere i principali portatori e richiedenti di autonomia. Una forza di sinistra come la nostra, ancorché piccola, anzi, a maggior ragione, questo deve fare. E allora, dico, impegniamoci a farlo.