Russia, è arrivata la crisi: segni di declino per l’era Putin

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La notizia secondo cui Vladimir Putin starebbe meditando il ritiro perché colpito dal Parkinson, ad una settimana di distanza è totalmente scomparsa mentre non è mai comparsa nei media russi, nemmeno come smentita del Cremlino (“spazzatura”), smentita che pubblicata in era sovietica sarebbe stata un indizio di possibile attendibilità. Né ha trovato accoglienza nei portali degli istituti di affari e relazioni internazionali. Si può quindi al momento derubricare a wishful thinking, visto che il leader russo ha da poco ottenuto, con il referendum costituzionale di luglio, la possibilità di essere rieletto fino al 2036.
Gli uomini del KGB

La recente prova di forza vinta da Putin con il referendum sembra, però, indicativa del fatto che al Cremlino le acque non siano tanto tranquille e che le modifiche alla costituzione, ratificando la permanenza dello “zar” finché Dio vorrà, siano state una mossa nella partita della successione.

Un libro appena uscito in edizione italiana, Catherine Belton, Gli uomini di Putin, Come il KGB si è ripreso la Russia e sta conquistando l’Occidente (La Nave di Teseo), ci aiuta a entrare nei meandri di un sistema che si è fatto sempre più opaco. Catherine Belton è stata corrispondente da Mosca per il “Financial Times” ed è una giornalista investigativa. Il volume è avvincente, vi si intuisce dietro la fatica gigantesca dell’autrice, che ha dovuto ricostruire legami e percorrere le tracce spesso ben sepolte di attività che si sono svolte nell’ombra, di intrecci fra servizi segreti e oligarchi, criminalità organizzata, politici, relazioni fra banche, stati e paradisi fiscali, in un arco temporale che va dagli ultimi anni dell’Unione Sovietica fino alle ambigue relazioni di Donald Trump e famiglia con i russi.

La prima tesi che Belton argomenta è che il KGB di Andropov fu la centrale che per prima capì che l’Unione Sovietica aveva perso la gara con l’Occidente e che l’apertura al mercato era necessaria. E non solo capì ma aveva gli strumenti per portarsi avanti con il lavoro attraverso la propria tentacolare rete globale (già allenati, come nel caso di Putin a Dresda, nello spionaggio e acquisizione delle tecnologie occidentali sotto embargo). Di questa rete facevano parte i contatti con l’economia illegale sovietica: quella seconda e terza economia che si erano sviluppate per sostenere un sia pur minimo livello dei consumi, su cui il sistema aveva chiuso un occhio. Belton mette l’accento sul carattere criminale e organizzato delle attività in nero, che non avrebbero potuto proliferare senza collaborazione con i servizi di sicurezza. Ha ragione ma va precisato che nell’Urss erano vietate attività commerciali che nel resto del mondo erano perfettamente legali e che il doppio mercato si era sviluppato molto precocemente, come ha dimostrato un bellissimo libro (uscito in Russia nel 1998, a seguito della stagione d’oro di apertura degli archivi) della storica Elena Osokina, Dietro l’eguaglianza, Consumi e strategie di sopravvivenza nella Russia di Stalin. 1927-1941 (edizione italiana Viella, 2019).
Giovani brillanti, oligarchi rampanti

Belton ricostruisce due operazioni chiave dell’ultimo decennio del XX secolo: 1) l’avvio di una enorme esportazione di capitali all’estero e di appropriazione dell’enorme quantità di beni immobili all’estero del Pcus. Anche in questo caso, credo che ulteriori ricerche che non neghino ma approfondiscano il racconto, dovrebbero tenere conto del fatto che il patrimonio dell’ex Urss era almeno diviso in tre, fra Stato, Partito, Kgb e che, certamente, fra le tre grandi strutture c’erano coincidenze e punti di contatto ma non si sovrapponevano interamente; 2) dopo il fallito colpo di stato del 1991, la selezione di giovani brillanti che sarebbero stati aiutati a diventare gli oligarchi dell’epoca di Eltsin. La figura più esemplare di questa leva è stato l’ex komsomol Michail Chodorkovskij. Giovani che, diventati miliardari, si sono dimenticati dell’aiuto iniziale.

Il secondo scenario descritto da Catherine Belton rappresenta il malcontento seguito al fallimento delle riforme economiche liberiste improntate al modello della terapia shock polacca. Malcontento che si intreccia agli scandali che investono la famiglia del presidente Eltsin, in particolare l’inchiesta condotta dall’allora procuratore generale Skuratov in collaborazione con la magistrata svizzera Carla Dal Ponte. L’opposizione era allora rappresentata da Evgenyj Primakov (Belton lo chiama, a mio avviso riduttivamente, “la spia”) e il sindaco di Mosca Luzhkov. Al Cremlino è chiaro che si avvicina il momento di passare la mano, anche perché Eltsin è vecchio e malato e “la Famiglia” è in preda al panico, teme l’inchiesta e cerca una soluzione che offra garanzie di immunità.
L’ascesa di Putin

La candidatura di Putin, allora un signor nessuno, nasce in questo contesto. Nonostante la sua provenienza dal KGB ha un pedigree democratico, essendo stato a Pietroburgo il vice del sindaco Anatolyj Sobciak, che fa sottovalutare i suoi trascorsi. “Pensavamo di controllarlo”, confessa Sergej Pugaciov, banchiere e oligarca eltsiniano che ormai ha il passaporto francese, una delle più colorite voci narranti del libro, il quale aggiunge: sbagliammo. Primakov sarebbe stato un avversario migliore, era della vecchia guardia e non aveva il cinismo dei nuovi KGB. Putin in quel periodo appare modesto, persino servile.

I capitoli dedicati alla biografia di Vladimir Putin a Dresda e a Pietroburgo sono degni di un romanzo di Le Carrè. Dresda sembra una sede minore per lo spionaggio internazionale ma, proprio perché non è sotto i riflettori di Berlino Est, dove convergono tutte le spie del mondo, è il luogo dove si fanno gli affari relativi al contrabbando delle tecnologie e si stabiliscono i contatti che serviranno anche in seguito. A Dresda la Germania Est dà asilo ai terroristi della RAF e si apprendono le tecniche di finanziamento degli estremisti di sinistra e di destra.

Anche a Pietroburgo Putin lavora nell’ombra, affina l’arte della dissimulazione e, al tempo stesso, mette le mani sulla vera ricchezza della città che non è, come pensiamo noi romantici, l’Ermitage, ma il porto militare e civile. Sono anni di drammatica penuria per la popolazione e durante i quali le privatizzazioni selvagge procedono anche con operazioni volte a rinfrancare le esauste casse dello stato e delle municipalità. I “prestiti in cambio di azioni” consentono di trasferire nelle mani degli oligarchi, per somme modestissime, gli enormi complessi commerciali e industriali del paese. “Petrolio in cambio di cibo” è un programma di aiuti destinato a portare sollievo alla popolazione di Pietroburgo ma il cibo che l’operazione promette non arriverà mai negli scaffali della città. Arrivano invece capitali che servono all’operazione di privatizzazione del porto. Il porto finisce nelle mani di un “consorzio” del quale fanno parte oligarchi, amministratori e criminalità organizzata.

Durante il primo mandato Putin mantiene il patto con Eltsin e conserva al governo i ministri liberali. Dal secondo in poi, complici le vicende del terrorismo ceceno su cui Belton getta una lunga ombra di dubbi, matura la svolta al cui culmine c’è il processo a Michail Chodorkovsij.

Quel processo rappresenta il vero punto di svolta, sostiene l’autrice: Chodorkovskij non è un santo ma l’accusa di evasione delle tasse formulata in base a leggi che non c’erano al momento dei fatti, la manipolazione delle giudici chiamate ad emettere una sentenza scritta prima, pongono fine alla certezza del diritto, creando le premesse per la fuga degli investimenti interni ed internazionali dal mercato russo.

Ai giovani oligarchi rampanti del periodo di Eltsin si sostituiscono, nei ranghi dell’oligarchia, i vecchi sodali, le amicizie nate durante gli anni del KGB. E, negli intrecci internazionali, fanno la loro comparsa altre figure, che risulteranno preziose nella costruzione ideologica neo-imperiale e nei collegamenti con la destra sovranista nel mondo. Sono i discendenti dei russi bianchi emigrati in Occidente durante la rivoluzione, anche loro vecchie conoscenze nel mondo delle spie, già in contatto con i servizi in epoca sovietica.
Venti anni dopo

A questo punto vale la pena, parafrasando Alexandre Dumas, di chiedersi cosa accade “Venti anni dopo”. Putin è certamente riuscito nell’intento di “far sollevare dalle ginocchia” la Russia, dando così soddisfazione al sentimento nazionale e patriottico. Di questi giorni è la mediazione nel conflitto armato fra Armenia e Azerbajgian che ha portato al risultato, per la prima volta, di una forza di interposizione interamente russa fra le due ex repubbliche sovietiche. Non tutte le sue mosse internazionali sono state indolori, l’annessione della Crimea e il conflitto con l’Ucraina hanno prodotto le sanzioni di Europa e Stati Uniti, sanzioni che mordono e hanno morso con la procedura dei conti bloccati su alcuni dei più importanti sodali del presidente. Le operazioni di sostegno ai sovranismi di destra e alle opposizioni anti-sistema di sinistra che, in Europa, hanno contribuito a minare l‘Unione, certo non sono disinnescate ma – e la vittoria di Biden su Trump ne è un significativo segnale – hanno subito forti battute d’arresto.

Soprattutto, il protagonismo internazionale copre una situazione economica non brillante. L’economia russa è in stagnazione e, soprattutto, è rimasta legata ai prezzi del petrolio e delle materie prime. Nel primo decennio Putin ha potuto godere dei prezzi alti del greggio, poi è iniziato un inesorabile calo – aggravato dalla sua decisione di far saltare il tavolo Opec sulla riduzione del numero dei barili. Il processo di riforme che avrebbe dovuto portare ad una gestione più efficiente nell’industria manifatturiera e allo sganciamento almeno parziale dall’andamento dei prezzi delle materie prime si è fermato. La differenziazione dell’approvvigionamento delle materie energetiche, i programmi di economia green pesano negativamente su un’economia il cui pilastro è l’esportazione dei prodotti estrattivi. La pandemia si è innestata su una situazione già difficile.

Non è quindi improbabile che si assista ad una erosione del consenso e che la partita a scacchi per la successione sia iniziata.                                                                                                                                Di Jolanda Bufalini