Sala vuole gabbie salariali: “Qui la vita è troppo cara”

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Un dipendente della pubblica amministrazione a Milano dovrebbe guadagnare di più rispetto a un pari ruolo che lavora a Reggio Calabria. La ricetta viene da Beppe Sala, sindaco di Milano che un paio di giorni fa – ma la polemica politica è tutta di ieri – è stato intervistato in diretta Facebook sulla pagina di InOltre – Alternativa progressista, gestita da un gruppo di giovani vicini al Partito democratico.

Parlando delle difficoltà e dello sfruttamento dei ragazzi nella sua città, Sala ha quindi citato l’elevato costo della vita milanese, proponendo poi la sua soluzione: “Io capisco che sia un discorso difficile da fare, ma è chiaro che se un dipendente pubblico, a parità di ruolo, guadagna gli stessi soldi a Milano e a Reggio Calabria, è intrinsecamente sbagliato, perché il costo della vita in quelle due realtà è diverso”.

Una visione che ricorda quella che nel Dopoguerra portò alle gabbie salariali, il sistema che ancorava gli stipendi al costo della vita di una certa area geografica. Rimaste in vigore per una ventina d’anni (non sempre a pieno regime), in Italia le gabbie salariali furono abolite tra gli anni 60 e 70 perché ritenute discriminanti nei confronti di chi lavorava in una città rispetto ad un’altra. Solo la Lega Nord di Umberto Bossi e qualche leader di Confindustria proposero di riesumarle.

Ora Sala sembra invece riproporre proprio quella scuola di pensiero: “Adesso o mai più. Quello che non possiamo fare è immaginare di tornare allo status quo precedente al coronavirus il più in fretta possibile. Bisogna approfittare di questa situazione per cambiare un po’ le regole del gioco”.

Inevitabile, però, che l’uscita di Sala prestasse il fianco a facili attacchi politici. Dall’opposizione la calabrese Wanda Ferro, deputata di Fratelli d’Italia, ne fa una questione di appiattimento nei confronti dei poteri forti: “Non ci meraviglia che da sinistra vengano proposte ricette economiche che coincidono con quelle che la grande finanza internazionale cerca di imporre all’Italia”. E ancora: “Il sindaco Sala racconti a un lavoratore calabrese che si trova davanti alla necessità di farsi curare fuori Regione, o che deve accudire un familiare in disabilità, che merita di avere uno stipendio più basso perché vive dove la vita costa meno”.

Dal governo invece è il ministro per il Sud Peppe Provenzano a bocciare Sala: “Si tratta di una discussione arcaica. Come facciamo a valutare la produttività di un lavoratore di Scampia, oppure di un quartiere di Palermo senza servizi? Questo lavoratore dovrebbe essere pagato il doppio per la socialità del suo lavoro”.

Stessa linea del ministro degli Affari europei Enzo Amendola: “Non voglio polemizzare con Sala, ma il problema non è quello delle gabbie salariali. La proposta non è una scelta condivisa né dai partiti né dai sindacati”. E in effetti nessuno segue il sindaco. Né dal Pd né, tantomeno, dai 5 Stelle, da cui semmai si utilizzano toni ancor più decisi: “Le ultime affermazioni di Sala sono a dir poco allucinanti – scrive la deputata calabrese Federica Dieni – Per il sindaco di Milano dovrebbero esistere due Italia, in ognuna delle quali il lavoro dovrebbe avere un certo grado di dignità, alto al Nord e basso al Sud. È inaccettabile che, nel 2020 si parli ancora di gabbie salariali, dietro cui si nasconde il solito complesso di superiorità della parte più sviluppata del nostro Paese”.

Peraltro Sala non è nuovo a controversie del genere. Un paio d’anni fa polemizzò con l’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio e la sua proposta di chiudere i centri commerciali la domenica: “Chiudano ad Avellino, a Milano non ci rompano le palle”. Parole a cui Di Maio replicò definendolo “sindaco fighetto” per cui “i diritti della persona sono una rottura di palle”.

A fine giugno, invece, durante un’altra diretta social Sala aveva snobbato il tele-lavoro, riconducendolo a poco più che una ricreazione ed esortando le aziende a far rientrare in ufficio i dipendenti dopo l’emergenza coronavirus: “Adesso basta con lo smart working, è ora di uscire dall’effetto grotta e tornare a lavorare”.                                                                                                                                                   (di Lorenzo Giarelli – Il Fatto Quotidiano)