Se non c’è altro oltre il Pd, allora chi vuole il voto chiama la sconfitta

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Piero Bevilacqua su il manifesto – Tra le opinioni circolanti nel dibattito politico spicca, per autorevolezza, quella di Emanuele Macaluso (manifesto, 10/8), il quale, sul ruolo del Pd nella vita politica italiana, sostiene lapidario: «Siccome non c’è altro – ripeto: non c’è altro – dico a tutti che demolirlo significa rafforzare la destra». È un’opinione raccolta di recente da Antonio Gibelli, in coda a un pregevole articolo (manifesto, 17/8)

Ora, certamente, al momento in Italia a sinistra «non c’è altro», come dice Macaluso, per lo meno sul piano degli schieramenti partitico-parlamentari. Ma l’apparente buon senso di tale constatazione deve indurci ad accettare la politica passata e presente di questo partito. E se risultasse che l’attuale desertificazione della sinistra italiana fosse in gran parte responsabilità delle strategie del Pd?

Già un superficiale sguardo storico alla condotta di questo partito negli ultimi anni illustrerebbe con dovizia quanto il successo di massa dei 5S e e in parte anche della Lega sia un esito quasi diretto sua della politica moderata. L’accettazione del fiscal compact e addirittura il suo inserimento in Costituzione, l’applicazione delle poltiica Ue di austerità, il Jobs Act e l’intera legislazione del lavoro improntata alla flessibilità, quasi nessuna attenzione all’ambiente, la politica fiscale a favore dei ceti abbienti (esonero Imu generalizzato sulla prima casa, mancata progressività dell’imposizione), l’abbandono delle periferie e del mondo del lavoro, che produce il paradosso degli operai iscritti alla Cgil ma votano Lega,ecc.

L’elenco è necessariamente breve e sommario. La verità è che in questi anni il Pd è diventato un partito di destra moderata, rappresentante di ceti sociali abbienti, tendenzialmente filo-padronale.
Ricordo tali aspetti storici non per l’ennesima recriminazione nei confronti di questa formazione, ma perché il suo segretario in questo momento esorta i suoi e gli italiani ad andare alle urne per battere la destra. E dunque non possiamo non porci le domande: con quale programma, visto che non abbiamo udito una sola parola di critica sulle responsabilità del passato? Con quali uomini, alleanze, schieramenti?

Cominciamo dal leader. Com’è ovvio, nulla di personale contro Nicola Zingaretti, ma la politica la fanno gli uomini e dunque si deve parlare di loro. Ci permettiamo di dubitare delle capacità di questo segretario di condurre il suo partito a un risultato elettoralmente importante, tanto da rendere meno devastante la vittoria certa delle destre. Perfino l’elementare semiotica della gestualità televisiva mostra Zingaretti sbagliare i suoi messaggi subliminali. Sorride sempre alle telecamere mentre il paese assiste di giorno in giorno alla devastazione dello spirito pubblico, ai drammi dei migranti, allo stravolgimento di ogni regola di democrazia e di convivenza. E quel sorriso suona inevitabilmente come una prova di ostentata superficialità.

E sempre per rimanere agli aspetti comunicativi e simbolici, il primo gesto di Zinzaretti da segretario del Pd fu quello di recarsi a Torino per sostenere la causa del Tav. È comprensibile che un ceto politico privo della cultura ecologica, senza nessuna idea dei problemi e dei bisogni del nostro territorio, caldeggi quell’opera. Ma fra tanti luoghi simbolici unificanti (una periferia urbana degradata, una fabbrica in lotta, un centro di ricerca meritevole, ecc) il segretario va ha scegliere un obiettivo che divide gli italiani e soprattutto il campo della sinistra?

Sul piano dei contenuti rimaniamo ancora più scoraggiati. Non sappiamo nulla del programma per il quale dovremmo recarci alle urne e votare il Pd. Conosciamo la condotta di opposizione al governo gialloverde e, se si esclude la questione migratoria (dove tuttavia Minniti ha creato un varco che resterà nei testi di storia per disumano cinismo), è stata sostanzialmente una posizione di destra, che in politica economica applicava supinamente il punto di vista della Ue. Così oggi Zingaretti non ci dice nulla, ad esempio, sul più rilevante dei problemi italiani: il Mezzogiorno. E questo non accade soltanto perché il Pd ha abbandonato da tempo ogni politica per quest’area del Paese, ma perché la “questione meridionale” si intreccia inestricabilmente con la questione dell’autonomia differenziata.

Non abbiamo sentito una sola voce di allarme su un progetto che è di pura dissoluzione regionalistica dell’Italia. E crede Zingaretti di conquistare consensi al Sud con il silenzio su questo tema drammatico? Infine, come può esortare al voto accettando una legge elettorale che regala una maggioranza sproporzionata al partito vincitore, senza nessun accenno autocritico a un sistema maggioritario che ha clamorosamente fallito?

Se così stanno le cose, in mancanza di un salto di qualità, in uomini e programmi, il “non c’è altro” di Macaluso significa che c’è la sconfitta certa, purtroppo non solo del Pd, ma dell’Italia intera.