Stadi, adesso è il tempo del coraggio di cambiare

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Il Coronavirus ci costringe a rivedere le nostre abitudini sociali, compresa la fruizione di mezzi pubblici, cinema, ristoranti e anche stadi. La maggior parte degli impianti italiani risale all’inizio del Novecento: il regime fascista fu piuttosto abile nell’usare il calcio per infondere nel popolo amor patrio e senso di unità nazionale.

Dei 17 stadi nei quali si gioca la Serie A solo cinque sono appartengono ai club locali, mentre gli altri sono di proprietà pubblica: 11 sono dei rispettivi comuni e l’Olimpico di Roma del CONI. È comunale anche il più affascinante: San Siro, che difficilmente arriverà a festeggiare il suo Centenario nel 2026, anno di Giochi di Milano-Cortina. Da tempo, Milan e Inter stanno lavorando al controverso progetto di un nuovo impianto.

Negli stadi del futuro andrà risolto il problema del distanziamento, attualmente impraticabile. La riduzione della capienza era già una necessità commerciale, ma ora diventa anche una questione di sicurezza. Non è difficile immaginare le tribune con una diversa disposizione dei posti, la criticità riguarda le “curve” che da sempre sono zone franche dove non solo si sta in piedi, ma spesso si verificano spaccio e altri reati. Più inchieste hanno confermato la connivenza di diversi club con frangie di “ultras” infiltrate dalla criminalità.

Il tema non è nuovo: sono passati esattamente trent’anni da quando l’Inghilterra ha introdotto nuove regole all’interno degli stadi, di fatto liberandoli dalle tifoserie organizzate e ponendo le basi per la nascita della Premier League, il campionato più ricco del mondo.

Noi, al contrario, siamo rimasti fermi ai disastri di Italia ’90. Da allora, il problema è già stato sollevato più volte, ma con esiti nulli.