Stop trivelle, la costosa guerra del governo contro gli idrocarburi

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Il nuovo governo giallo-rosso blocca le trivelle. Il comparto oil&gas non ha avuto vita facile negli ultimi anni, ma oggi il premier Giuseppe Conte ha dichiarato guerra contro gli idrocarburi. Tale politica quali danni economici può causare al Paese?

Novità in temi energetici. “Bisogna introdurre una normativa che non consenta, per il futuro, il rilascio di nuove concessioni di trivellazione per estrazione di idrocarburi”, è quanto dice il punto 9 del programma del nuovo governo Pd-5 stelle-Leu. Si tratta del passaggio ribadito dallo stesso Conte nel proprio discorso alla Camera dei deputati prima della votazione della fiducia.

Che cosa cambierà realmente per le attività di trivellazione in Italia? Che danni subiranno le aziende coinvolte nel settore? Sputnik Italia ne ha parlato con Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, società indipendente di ricerca sull’energia e l’ambiente.

– Davide Tabarelli, il nuovo governo ha detto “no” alle trivelle? Che cosa cambierà concretamente?

– Nel programma e nel discorso del Primo Ministro si fa riferimento a nuove concessioni che riguardano solo nuove perforazioni. In realtà non cambierà molto, perché in Italia è dal 2010, cioè dall’incidente al pozzo Macondo, che praticamente non si riescono a fare nuove esplorazioni. Tutto è stato sospeso anche con i governi precedenti, perché le regioni hanno molto potere nel processo decisionale ed autorizzativo e le regioni sono sempre contro. Al di là dei reclami di oggi, che di certo non sono positivi, di fatto già in precedenza era tutto quanto sospeso.

In realtà per le concessioni già date in essere ed i progetti già avviati dovrebbe essere consentito compiere nuovi investimenti ed addirittura nuove perforazioni nella concessione. Teoricamente quindi sarà possibile, ma estremamente difficile.

– Quali sono i danni economici per le aziende coinvolte nelle trivellazioni con questo tipo di politiche?

– Ci sono diverse aziende che in Italia sono in sofferenza, c’è la Trevi che è in concordato fallimentare, ovvero il procedimento per essere ceduta per non fallire. C’è anche la Edison che ha venduto ai greci la propria attività. Il caso più evidente però è il calo della produzione, il danno per il mercato della produzione italiana: noi produciamo circa 10 milioni di tonnellate di petrolio e gas naturale, ma l’Italia consuma 120 milioni e questo vuol dire che importiamo dall’estero 110 milioni di tonnellate.

Questo volume di importazioni vale circa 20 miliardi all’anno e credo che almeno 5 di questi miliardi li potremmo lasciare in Italia con progetti ed investimenti. Cinque miliardi sono circa lo 0,3% del PIL, è questo il danno di cui parliamo.

Noi compriamo molto petrolio e gas all’estero mentre invece potremmo sviluppare le risorse come il petrolio in Basilicata o il gas nell’Adriatico sfruttandole.

– Bloccare il petrolio ed il gas italiani a quali conseguenze geopolitiche può portare per il Paese?

– Come in passato non ci sono grandi cambiamenti, ma viene solo confermato il trend in corso da più di dieci anni, ovvero una crescente dipendenza dalle importazioni estere. Noi siamo insieme al Giappone fra i grandi paesi industrializzati, secondo l’OCSE, che più dipendono dall’importazione per un 80%, numero che è un po’ calato negli ultimi anni intorno al 77% grazie alla rinnovabile e alla stabilità dei consumi. Noi siamo però a dei livelli molto alti di dipendenza sia per il gas che per il petrolio, questo vuol dire che il nostro primo fornitore di energia, la Russia, viene rafforzato come fornitura. La Russia è sempre stato un affidabile fornitore, anche nei periodi di crisi il flusso non è mai stato interrotto. Abbiamo poi le esportazioni dal nord Africa, un’area abbastanza instabile, ed ultimamente anche dagli Stati Uniti.

– Gli idrocarburi non hanno avuto e non hanno vita facile in Italia. Perché?

– C’è un gioco strano, ieri ho sentito un’intervista del nostro ministro degli esteri Luigi Di Maio che faceva riferimento al concetto del “No trivelle” perché dice che è assurdo mettere a rischio le nostre coste con delle trivelle che possono improvvisamente impazzire. È un concetto sbagliato, noi le trivelle nell’Adriatico non ce le abbiamo più da vent’anni. Le trivelle non sono le piattaforme, cioè delle strutture su dei pozzi già trivellati, c’è un malinteso sul fatto che questi impianti già fatti possano fare dei danni poiché gli incidenti sono rarissimi. L’ostilità è cresciuta su una polemica politica dopo l’incidente di Macondo del 20 aprile 2010 che ha fatto esplodere nell’immaginario collettivo nel mondo, in Italia e nei politici l’idea che il petrolio nel mare volesse dire incidente, cosa che non è mai successa né sarebbe potuta accadere qui in Italia.