Togliete il ginocchio dal nostro collo

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Davanti al feretro di George Floyd, nella prima commemorazione funebre a Minneapolis, ci sono cinquecento persone. Le misure di sicurezza per il covid-19 non ne permettono di più: e per questo le cerimonie saranno almeno tre. La seconda sarà a Raeford, North Carolina, dove George è nato; la terza a Huston, Texas, dove è cresciuto ed è vissuto a lungo. Ma la prima si è tenuta per forza a Minneapolis: dove George Floyd è stato ucciso.

Il suo corpo senza vita, protetto da una bara che appare quasi lucida sotto i flash e i riflettori, attraverserà dunque un’America in fiamme e chissà se –proprio intorno a lui- l’America saprà ritrovarsi un po’ più unita, decisamente migliore. Perché tutti oggi rendono omaggio a quest’omone soffocato dal ginocchio d’un poliziotto bianco, tutti cominciano ad ammettere che nel “paese delle libertà” qualcosa non funziona: il razzismo, nato con l’America stessa sui corpi degli schiavi, continua a mietere vittime, a segregare persone, ad impedire che i neri abbiano gli stessi diritti e le stesse opportunità dei bianchi. Tutti sono ormai costretti ad ammetterlo, tranne naturalmente il Presidente Trump.

Il sindaco di Minneapolis, in lacrime, si inginocchia davanti al feretro. Pochi istanti prima di lui, ad inginocchiarsi era stato il reverendo Jessie Jackson: il primo nero che concorse alle primarie per la Casa Bianca, negli anni ottanta di Ronald Reagan, il giovane reverendo tra le cui braccia morì Martin Luther King, in quell’aprile del ’68 a Memphis. Ma sarà un altro reverendo, Al Sharpton, a tenere un’omelia di fuoco: “La storia di George Floyd è la storia dei neri. Perché da 401 anni in qua, la ragione per cui non siamo mai potuti essere chi avremmo voluto e sognato è stata che voi ci avete tenuto il vostro ginocchio sul nostro collo. E’ tempo che noi ci alziamo in piedi”, ha tuonato. “Togliete il vostro ginocchio dal nostro collo!” Il reverendo ha quindi fatto alzare in piedi le cinquecento persone riunite e le ha invitate al momento di silenzio: otto minuti e quarantasei secondi di silenzio. Otto minuti e quarantasei secondi: il tempo impiegato ad uccidere George Floyd.

Quegli otto minuti e quarantasei secondi non stanno solo incendiando l’America: la stanno cambiando. Il Presidente che vorrebbe a novembre farsi Re ha un bell’ostentare superiorità e ferocia, può continuare a rivendicare di essere il più duro di tutti, il più cattivo di tutti. Il suo brutale appello agli istinti peggiori dell’America, sperando che il peggio diventi maggioranza elettorale, è un gioco tanto pericoloso quanto smaccato. Contro di lui si alzano le voci di chiunque abbia fiato in gola –artisti, politici, intellettuali, campioni sportivi, persino comandanti della polizia, perfino generali dell’esercito, persino ex capi del Pentagono.

Certo non è affatto scontato che questa sua reazione disumana faccia perdere a Trump le elezioni di novembre; così come non è detto che le perda per la gestione sconsiderata della pandemia, che negli Stati Uniti ha già fatto oltre centomila morti e quaranta milioni di disoccupati. Ma quegli otto minuti e quarantasei secondi hanno ormai risvegliato un popolo, hanno messo le coscienze –singole e collettive- davanti ad una consapevolezza innegabile: che la violenza, il razzismo e l’ingiustizia hanno ancora oggi troppo potere in America. E che questo va cambiato in modo radicale, definitivo.

Tanto che, al termine del rito funebre, il reverendo Sharpton ha annunciato –accanto al figlio di Martin Luther King- che ci sarà una grande marcia a Washington per chiedere “una radicale riforma del sistema di giustizia criminale”: sarà il 28 agosto, la marcia che si annuncia imponente, esattamente 57 anni dopo quella in cui il Reverendo King annunciò al mondo “I have a dream”. E allora, forse, si può davvero sperare che abbia ragione Gianna, la bimba di sei anni di George Floyd: “Mi manca il mio papà -ha mormorato- ma sono orgogliosa di lui. Ha cambiato il mondo.”

Edmond Dantès