Tutti i guasti di un’università per pochi

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FACOLTA' DI GIURISPRUDENZA FOTO DI ALESSIO COSER

L’Università non è un obbligo, nel senso che non si è costretti a prendere una laurea. Però, tutti sostengono che maturare un percorso di studi in ateneo consenta di migliorare sé stessi e il proprio paese, perché il mondo accademico rappresenterebbe sia un ascensore sociale individuale, che il volano del sistema produttivo nazionale. Ciononostante, le regioni italiane non raggiungono la soglia del 30% della popolazione laureata, territori del Sud come la Sicilia toccano a malapena il 14%, siamo ben al di sotto della media dei paesi OCSE e la politica non affronta mai il tema di petto.
Diritto allo studio?

universitariQuesti dati non sorprendono affatto. Da tempo il nostro sistema d’istruzione più avanzato ha abbracciato la strada liberista della competizione, trasformando un luogo adibito al confronto in un sistema dove vige la legge del più forte. Si comincia da subito, a diciotto anni, con il numero chiuso che obbliga i ragazzi a svolgere test (discutibili nel merito), sulla base dei quali potranno accedere al corso di studi che più amano. Il diritto allo studio, che è anche il diritto di scegliere cosa studiare, viene fortemente ostacolato col risultato di avere meno professionisti in un determinato settore quando servono, come nel caso della recente crisi da COVID-19. Il diritto a poter studiare, che si manifesta sulla carta come liberalizzazione degli accessi (dove non è presente il numero chiuso), non si attua nella sostanza, perché non ci sono sufficienti borse di studio per sostenere i capaci e meritevoli nel percorso. Anche in quel caso, spesso, i limitati finanziamenti obbligano alla competizione chi non può pagarsi gli studi, premiando alcuni capaci e lasciando esclusi tanti meritevoli.
L’inferno della carriera accademica

Presa la laurea, alcuni ragazzi ambiscono alla ricerca e tentano la strada del dottorato, un contratto solitamente triennale presentato come la via maestra all’insegnamento accademico, naturale prosecuzione del ciclo magistrale. Purtroppo non è affatto così, perché dopo la battaglia per accedere al “phd program”, solo il 6% dei dottorandi riesce a proseguire nella frustante carriera accademica. I concorsi per il dottorato sono locali, quindi banditi dai singoli atenei e presentano un numero limitatissimo di posti, nonostante le centinaia di richieste. L’ovvia competizione che ne deriva è spesso superata attraverso la cooptazione, un meccanismo per il quale i docenti titolari di cattedra riescono a suggerire alla commissione giudicatrice (che gode della piena insindacabilità sul giudizio dei candidati) lo studente che hanno più a cuore, sacrificando tanti altri, magari più bravi. Una situazione di questo genere tende a favorire non tanto la creazione di scuole di pensiero, ma veri e propri seguaci che, essendo legati a doppio filo al maestro di riferimento, produrranno opere scientifiche di dubbia originalità, venendo meno a quella idea di “università del dissenso” ritenuta un caposaldo di una società sana e critica. Oltretutto, entrando nel percorso di dottorato attraverso una valutazione che implica le pubblicazioni (non è facile che un ragazzo di 23 anni abbia già pubblicato), ci si può scontrare con candidati con alle spalle già parecchi anni di ricerca. Di solito questa categoria di persone ha già svolto un precedente dottorato e avrà più titoli di un neolaureato ma, non essendo stata assorbita dal sistema con un contratto da ricercatore, tenta un altro dottorato. Il motore, così facendo, si ingolfa sin dall’inizio per disordine e assenza di fondi.

La carriera accademica è talmente spezzettata, divisa tra contratti di ricerca, assegni e cattedre annuali che, dopo il dottorato, nella migliore delle ipotesi ci sono circa otto anni di precariato. Alla fine di ogni periodo contrattuale non si ha mai la certezza di un rinnovo, mentre il primo contratto a tempo indeterminato è assegnato solo a chi raggiunge la carica di docente associato, più o meno sui trentacinque anni di età. Buona parte dei concorsi che servono per il rinnovamento del contratto, o lo scatto di carriera, inoltre, non sono nazionali e si basano sempre sulla valutazione delle pubblicazioni. Il localismo favorisce nepotismo e clientelismo, mentre l’approccio quantitativo alle pubblicazioni va tutto a discapito della buona qualità di un elaborato accademico. La rincorsa a pubblicare di più e la competizione sfrenata riducono gli elaborati di effettivo valore.
Fermare quest’involuzione

Ad oggi c’è chi vorrebbe spingere l’acceleratore su un sistema ancora più liberista, che preveda la completa trasformazione degli atenei in fondazioni, con possibilità di assumere o rimuovere liberamente un docente, totale autonomia nelle remunerazioni, libertà nei criteri di ammissione degli studenti e competitività tra le università. L’idea sarebbe quella di marcare la differenza tra atenei di serie A e quelli di serie B, con i primi che avrebbero ancora più fondi per promuovere l’auto-eccellenza e limitare la vocazione universalistica dei dipartimenti. Insomma, oltre alla differenziazione tra università prestigiose e non, si vorrebbe fare in modo che siano sempre di meno gli istituti con tutte le facoltà d’insegnamento all’interno.

Una pericolosa involuzione rispetto alla lotta per l’università di massa e qualificata, portata avanti da numerosi tentativi di riforma prodotti a partire dagli anni ’60. In particolare, nel periodo ’68-’71, l’Associazione Nazionale Docenti Universitari guidata da Giorgio Spini, collaborando con la rete del movimento studentesco, con le associazioni di categoria e confrontandosi col governo, cercava di rielaborare la struttura universitaria contrastandone le derive elitarie. L’obiettivo era quello di regalare al paese un luogo di elaborazione critica della realtà data, che fosse anche espressione dell’emancipazione delle classi subalterne della società italiana. In contrasto con il feudalesimo universitario, si proponeva una selezione nazionale per tutti i docenti, una separazione delle carriere, uno sdoppiamento delle classi con un eccessivo numero di studenti e un deciso abbandono di ogni criterio selettivo che limitasse l’accesso a ristrette categorie sociali. Spini non soltanto voleva superare la natura classista di quella università, ma proponeva una riforma ambiziosa, organica, con massicci investimenti, inquadrata nella piena coscienza della crisi politica e sociale dell’epoca.

L’inversione di tendenza, pesantemente aggravata dalla famosa “legge Gelmini” del 2010, non è solo un segno dei tempi più recenti, ma una precisa opera di smantellamento del sistema portata avanti da anni. Aver smesso di considerare l’ateneo come terreno primario di scontro politico, come tassello essenziale nell’immaginazione di un’Italia futura, ha prodotto le derive moderne. Occorre chiamare a raccolta sul tema tutti, dai partiti ai sindacati, dai docenti agli studenti, per decidere che tipo di rete accademica (e quindi che tipo di Italia) vogliamo costruire. Da una parte un’università per pochi eletti e dall’altra un’università per tutti. Ancora una volta la diatriba si traduce nel concetto dei “pochi contro i molti”, nella speranza che alla fine vinca l’idea di un’università che abbia senso di esistere solo se si rivolge al paese per il paese, per una cultura che sia strumento e fine del progresso sociale.                                         Di Federico Micari