Un teatro non basta. Questo Furore portiamolo nelle piazze

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Saranno le sardine di piazza Maggiore ma dopo avere visto Furore mi è balenata un’idea. La piazza. Lancio la proposta al Teatro di Roma, alla compagnia Umberto Orsini che coproduce, a Massimo Popolizio che poi ne parliamo.

Furore, dunque. Il capolavoro di John Steinbeck pubblicato a New York nel 1939, nato dagli articoli reportage per il San Francisco News, a leggerlo oggi, fa impressione. Fa impressione che un pezzo di storia americana di un secolo fa, in particolare tra la crisi del ’29 e l’attacco di Pearl Harbour, racconti di noi in modo così preciso e feroce. Di noi, incattiviti dalla miseria o abbrutiti dalla ricchezza, affamati e stanchi o bulimici e obesi, ladri per fame o per vocazione. Noi, nelle nostre surriscaldate case borghesi o stipati in trentasei dentro un furgone. Noi che siamo un paese libero e sempre noi che la libertà è solo quella che ‘ti puoi comprare’. Si dice proprio così, in questo romanzo del ’39. E si dice anche ‘tornatevene da dove siete venuti’.

Anche per questo, ma non solo per questo, Furore si deve portare nelle piazze. Cominciamo proprio dall’Emilia Romagna, prima che sia troppo tardi. Piazza Maggiore in testa e a ruota le altre. Vedete un po’ voi. Anche gli stadi andrebbero bene. Per esempio San Siro. Offerta libera. E chi può sia generoso.

Non è una provocazione, è proprio una proposta. Queste parole di Steinbeck riportate in 3D come Popolizio sa fare in modo sublime, devono conoscerle tutti. Leggerle, certo, ma il privilegio della condivisione può generare il miracolo. E poi si comincia a parlarne, a litigare, anche, come succede quando si esce dal migliore teatro. Quello che le parole te le fa vedere e toccare con mano.

Io sono uscita con le lacrime agli occhi e molti altri sono usciti con le lacrime agli occhi. Un’ora e un quarto in cui stomaco nervi e altre interiora si sono persino accaniti. E poi la pelle. Avete presente quando sentite parlare di pulci e pidocchi e avvertite il prurito? Quello.

Quello di una tartaruga tormentata da una formica rossa infilatasi ‘tra la corazza e le pieghe della pelle’ che a sentirne parlare vi divincolate anche voi. E qui la vedete, mentre ‘procede sulle zampe coriacee artigliando il suolo con le unghie giallastre’, vedete i suoi frenetici sforzi di ‘inerpicarsi sull’alzaia’, vedete ‘la testa e le zampe che si ritraggono’ e la ‘coda squamosa che si rintana di sbieco sotto il guscio’. Vedete anche la ‘striscia d’erba spianata’ che lascia dietro di sé e tutti i fenomeni che la natura riserva. C‘è, nello sforzo di questa piccola bestiola, nei suoi ripetuti tentativi di superare ostacoli e barriere, la fatica vana dei derelitti: tutti quanti, di ieri e di oggi.

E se nel romanzo è la famiglia Joad che dall’Oklahoma va verso la rigogliosa e inospitale California, attraversando il Texas, il New Mexico e l’Arizona percorrendo su un autocarro la Route 66, in questo lavoro, che si è valso dell’adattamento di Emanuele Trevi, il punto di vista è quello di un narratore emotivamente compromesso, che non si sofferma sulle vicende di una sola famiglia ma osserva i fenomeni e li racconta.

E’ una figura che molto ricorda l’io narrante in Ragazzi di vita di Pasolini, anch’esso frutto della collaborazione tra Popolizio e Trevi. Ma mentre là il narratore era sul palcoscenico insieme ai personaggi narrati, qui è dietro un leggio e i personaggi respirano attraverso il racconto.

Figure simboliche di uomini “resi snelli dalla fame e robusti dal resisterle”, di donne che ne scrutano il volto per capire se tutto è perduto o resta ancora un po’ di vita da salvare, di bambini biondi come il grano ma rachitici o malati di pellagra che muoiono di fame quando i granai sono pieni e le ‘montagne dorate’ di arance vengono distrutte col cherosene per impedire che il prezzo cali. Frutta matura destinata a marcire nel ‘letto dolciastro della putrefazione’ purché non venga svenduta, e terre fertili e incolte interdette ai migranti che sono ‘invasori con gli occhi cattivi’. Ma come si fa a spaventare un uomo quando ha solo paura per la fame dei figli. E’ di fronte a ‘delitti così abietti da trascendere la comprensione’, che cominciano a germogliare i semi del furore e diventano acini e gli acini grappoli, pronti per la vendemmia (The grapes of wrath è il titolo originale).

Procede fluido il racconto, sempre seguendo un andamento autonomo rispetto al romanzo, sostituendo alla suddivisione dei capitoli una successione tematica: la polvere, la banca, il trattore, accampamenti, narratori, l’odio, alluvioni, latte. Intanto su uno schermo scorrono immagini di contrappunto tratte dall’archivio di Dorothea Lange e Walker Evans (anche esposte in una mostra dedicata).

Volti smunti e smarriti dietro una coltre di polvere che scurisce anche il cielo, corpi fradici coperti di stracci ancora più fradici che cercano invano riparo dagli alluvioni, terra arsa dal sole incapace di assorbire la pioggia, trattori come carrarmati che mentre ‘scavano la terra scacciano i contadini dalla terra’, camion zeppi di tutto anche se tutto sono due materassi e poche cose messe in salvo dalle tempeste di sabbia. Tocca lasciare la casa. Tocca andare verso la terra promessa. Tocca ‘inventarsi il piacere’ raccontandosi storie e imparare ‘a vivere senza le nostre vite’. Si vede anche la terra promessa, in queste immagini, e sono le sole con un po’ di colore. La California che ‘freme di vita nascente’ coi suoi rigogliosi frutteti e le verdeggianti pianure. Con gli uomini di scienza, i laboratori di ricerca, l’agricoltura programmata a tavolino e con le banche, soprattutto le banche. ‘Mostri’ che fagocitano poveri e ricchi perché ‘se i mostri smettono di crescere muoiono’.

Sono squarci di visioni che danno corpo alla narrazione, come l’immagine live dell’attore mentre legge. Ma quel che cattura di più è il rapporto tra Popolizio e la musica di Giovanni Lo Cascio suonata dal vivo, “un rap con basi africane”, vera e propria maglia della drammaturgia, generata e contaminata con essa. Percussioni, soprattutto, che segnano il passo, i momenti cruciali, intessono con le parole un dialogo in atto, annunciano, sigillano, evocano.

La voce narrante scolpisce e colora uomini e cose e come un drone osserva dall’alto e conosce il percorso. Però non preserva, non sa ingraziarsi le forza della natura né propiziare la sorte. Meno che mai addomesticare gli uomini quando scelgono di non essere umani. Semplicemente accompagna, scorta con compassione, a volte consola.

Ogni tanto scende tra loro, nella massa indistinta di uomini e donne, e li riscatta attraverso l’intimità di un colloquio, l’umiliazione di una questua, la brutalità di un fronte a fronte tra sfruttatori e sfruttati. La voce è sempre la sua, in diretta al leggio e registrata, in un dialogo che ha del prodigioso. “Perché il virtuosismo – ha detto durante l’incontro con il pubblico, per fortuna in presenza di un bel po’ di giovani teatranti – non è detto che sia negativo”. Già. Infatti anche la voce ha la sua Route 66: fatta di montagne pianure cascate deserti. Basta saperla percorrere.

Una volta sola diventa John Steinbeck, seduto alla scrivania con su la macchina per scrivere e il rumore dei tasti e fa un gran piacere sentire il vecchio rumore dei tasti. E’ il momento brechtiano della performance, in cui lo scrittore, sedendosi, si alza in piedi e dice la sua: fuori dal flusso, in pochi secondi.

E infine una nota sull’adattamento. Traspare nella scelta dei passi un disegno che attraversa il lirismo corroborando le idee, una circolarità, una resa dei conti che arriva alla fine e commuove, appunto, fino alle lacrime. Un esempio, il più significativo. “Forse non c’entrano gli uomini. E’ la proprietà la causa di tutto”. Ecco, questa considerazione che risale ai tempi in cui la disuguaglianza tra gli uomini si rintracciava nella recinzione del terreno, ritorna con i paletti alzati attorno a un ritaglio di terra dove un povero cristo non può piantare nemmeno un piccolo seme di rapa. Salvo che poi quel povero cristo si lascia morire per nutrire suo figlio.

Invece quel povero cristo non morirà. Perché quando tutto sembrava perduto, quando uomini e donne sono uguagliati al fango di un fienile alluvionato, accanto a un bimbo nato morto, avvolti in una coperta sudicia, anche il latte del tuo seno è un bene comune.