Una società bloccata: il covid frena ancor di più l’ascensore sociale

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Lavorare meno, lavorare tutti” è un famoso slogan che diventa il titolo di copertina del giornale Lotta Continua nell’edizione del 5 dicembre 1977

Un titolo quasi uguale, “Lavorare meno, tutti”, viene utilizzato dal giornale Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani, più di quarant’anni dopo nell’edizione del 6 maggio 2020. Nonostante le due testate facciano riferimento a momenti storici differenti, la conclusione sembra essere la stessa, al netto delle diversità di vedute. Una eterogenesi dei fini incalzata dalle trasformazioni del mercato del lavoro, le cui lacune sono state accentuate dall’esplosione della pandemia, che ha messo il sale sulle ferite già aperte dell’economia italiana.

Il più grande scandalo italiano

La valorizzazione del lavoro è un’idea costituzionale della Resistenza, impiantata nel nostro sistema. Nei primi giorni di aprile, però, l’Istituto Nazionale di Statistica pubblica una ricerca che testimonia come il virus abbia bruciato 945.000 posti di lavoro, aumentando il tasso della disoccupazione fino al 10,2%. Le aziende a rischio rappresentano il 45% del panorama nazionale mentre, già a marzo, la direttrice generale della stessa ISTAT, Linda Laura Sabbadini, denuncia un livello di povertà che raggiunge la soglia delle 5 milioni e 600.000 persone. 1 milione di poveri in più rispetto al 2020. A questo si aggiunge l’indagine IPSOS, che registra come soltanto il 27% della popolazione si senta parte del famigerato “ceto medio”, a fronte di un 8% che ha difficoltà nel reperire generi alimentari, un 16% che dichiara di non potere pagare le bollette e un 37% che afferma di non sapere come affrontare eventuali spese impreviste.

Sono dati allarmanti, se non addirittura catastrofici, che mostrano le pesanti ingiustizie del mondo del lavoro nostrano, specialmente se si riflette sulla dimensione giovanile e femminile. Dentro quel 10,2 % di disoccupati, infatti, il 31, 6% è costituito dai giovani di età compresa tra i 18 e i 34 anni, la stessa fascia che ha incrementato il proprio tasso di povertà del 23,1% rispetto al 2020. Le donne occupate, in Italia, sono solo il 49%, mentre i livelli richiesti dalla Commissione europea si attestano sul 60%. In media, dentro quel 49%, ci sono donne che guadagnano il 14% in meno dello stipendio di un uomo a parità di lavoro e di condizioni date. E ancora: più di due milioni di ragazze e ragazzi compresi tra i 15 e i 29 anni non studiano e non lavorano. Non fanno nulla. È quello che Ferruccio De Bortoli, sul Corriere della Sera del 16 maggio, definisce “il più grande scandalo italiano”.

Una società bloccata

Non sono solo numeri, ma storie di vita reale che raccontano le difficoltà di un paese incapace di sostenere il peso del lavoro, il principale problema da mettere al centro dell’agenda politica. Se è vero che la libertà è partecipazione, allora bisogna riconoscere che “partecipare” significa prendere parte alla vita politica, sociale, culturale della propria comunità. Ciò vorrebbe dire che la libertà è, prima di tutto, inclusione sociale. Eppure questi dati testimoniano la presenza di un popolo, quello degli esclusi, dentro il più ampio popolo italiano, che si ritrova diviso tra chi ce la fa e chi no.

È la storia di una società bloccata, la versione sociologica della vecchia definizione politologica di “democrazia bloccata” primo-repubblicana, dove l’ascensore sociale funziona in discesa. I figli non sanno se riusciranno a garantire alla propria prole le stesse opportunità che i loro padri sono stati in grado di assicurare. Uomini e donne che non possono programmare il proprio futuro, perché non conoscono le loro prospettive e spesso non ne hanno. Quando la strada si presenta in pianura, cioè con una messa in regola senza troppi ostacoli, si deve mettere in conto che un lavoratore medio, in Italia, guadagna 30.000 euro annui, contro i 39.000 dei francesi e i 42.000 dei tedeschi.

Se si considera poi tutto il mondo del lavoro sommerso, semi-sommerso, con diritti sparsi o pressoché negati, le distanze sociali aumentano a dismisura, fino a prefigurare l’ipotesi di un allontanamento interpersonale talmente ampio da non avere più alcun luogo di contatto. Manager e lavoratori dei call center che non si ritroveranno nemmeno allo stadio, perché seduti in settori diversi, a seconda del proprio potere d’acquisto (cosa che, in parte, già accade).

La storia di Lara Lugli, la pallavolista incinta che è riuscita a ottenere il pagamento del proprio stipendio da parte della società per cui è stata tesserata, è motivo per cui rallegrarsi, ma è anche un emblematico campanello d’allarme. Che le donne non possano svolgere regolarmente un lavoro che amano, perché devono scegliere tra il desiderio di maternità e lo stipendio, è segno di inciviltà e disuguaglianza. E molta strada c’è ancora da fare.

Diritti civili, politici e sociali

Il bisogno dell’altro non è una colpa. Ripartire da una nuova visione degli ammortizzatori sociali universali e da un nuovo modo di concepire la dinamica aziendale, magari con la partecipazione dei lavoratori alle decisioni sul processo di sviluppo interno, sono due dei tanti punti che devono accompagnare i nuovi investimenti europei. Nei giorni in cui si discute per vincere una battaglia giusta, legittima, per l’approvazione del ddl Zan, non è sbagliato rimarcare con forza un principio che appartiene alla storia della sinistra: i diritti civili e quelli politici, per quanto necessari, non hanno valore se non sono sorretti dalle battaglie per i diritti sociali. Una lezione politica essenziale per orientare il giusto cammino della democrazia.

Di Federico Micari