Unione monetaria e deflazione: un matrimonio indissolubile

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Un aspetto dell’eurozona che neutralizza le costituzioni democratiche è la sua strutturale tendenza deflattiva; cosa significa che l’area dell’euro ha una tendenza alla «deflazione»? Significa che non c’è pressione sull’aumento dei prezzi. E quando i prezzi aumentano? Generalmente quando aumenta la domanda di beni e servizi. E quando aumenta la domanda di beni e servizi? Quando i lavoratori guadagnano di più. Quindi se un’area economica è deflattiva, vuol dire che i salari – i redditi dei lavoratori – non crescono o addirittura decrescono. Quando i salari sono stagnanti o decrescono? Quando aumenta la disoccupazione.

L’eurozona quindi tende strutturalmente – ovvero persistentemente – a produrre disoccupazione e sottoccupazione nei paesi che ne fanno parte.

Poiché le costituzioni moderne nate dopo la seconda guerra mondiale prevedono in diversa misura il superamento dello Stato liberale – censitario e in cui vi è contrapposizione tra società civile e Stato – a favore dello Stato sociale – in cui tramite la rimozione degli ostacoli sociali ed economici i cittadini in quanto lavoratori possono partecipare alla vita pubblica del proprio Paese – i costituenti hanno ritenuto di obbligare i futuri legislatori a tutelare il lavoro. Ovvero, come in Italia, hanno «fondato» le democrazie sul «lavoro». Quindi la realizzazione della democrazia prevede che lo Stato – secondo i principi di politica economica keynesiana – da una parte assicuri la «piena occupazione» e dall’altra provveda a fornire reddito indiretto – come la sanità pubblica gratuita – e differito – come le pensioni.

È evidente che un’area con tendenze deflattive, portando alta disoccupazione, il definanziamento dei servizi pubblici, e quindi l’impoverimento generalizzato di gran parte dei lavoratori con il relativo aumento delle disuguaglianze, è in conflitto con gli obblighi costituzionali dei paesi democratici e, quindi, è in conflitto con la democrazia tout-court.

Quindi essere favorevoli all’euro è essere sfavorevoli alla democrazia e viceversa: e lo è per costruzione.

La conferma empirica di queste riflessioni ci viene dal «Position Paper» italiano di fine 2018 di cui vengono riportati alcuni estratti in http://orizzonte48.blogspot.com/2019/10/il-destino-dellitalia-4-la.html .

A consuntivo, dopo lustri di unione monetaria, viene constatato che in UE – i cui Trattati impongono per legge ciò che l’euro impone con l’ineludibile forza del vincolo economico – si è persa progressivamente capacità produttiva nel settore manifatturiero: in pratica i trattati liberoscambisti UE e la moneta unica stanno deindustrializzando l’Europa.

Sottolineiamo che le grandi lotte dei lavoratori per la richiesta di condizioni economiche e sociali migliori sono state possibili proprio grazie alla possibilità d’incontro tra lavoratori offerte dai grandi complessi industriali nati insieme al portentoso sviluppo capitalistico: le grandi fabbriche che sono state chiuse, smantellate o delocalizzate sono state il luogo fisico in cui la coscienza sociale e democratica veniva acquisita dall’avanguardia delle forze produttive.

La chiusura dei grandi complessi manifatturieri in favore di un’economia finanziarizzata e basata sempre più sui servizi ha comportato – oltre alla maggiore disoccupazione – alla dispersione dei lavoratori nei servizi, spesso con contratti precari, a singhiozzo, o addirittura «a chiamata» – come in Italia dopo il Job Acts – in realtà produttive magari piccole e isolate. Realtà produttive che non possono più fornire alcuna sicurezza ai lavoratori; lavoratori privi di qualsiasi tutela in quanto i sindacati nelle aree di libero scambio e di libera circolazione dei capitali non possono assolvere alla loro funzione poiché costantemente sotto il ricatto di delocalizzazione. Non sta bene il nuovo livello salariale? Bene, noi ci spostiamo a produrre in un altro Paese in cui il costo del lavoro è più basso. Così rispondono le imprese ai sindacati che, d’altronde, se non tengono bassi i salari non possono competere nelle aree di libero scambio (in cui per trattato lo Stato nazionale non può «proteggere» la propria produzione meno competitiva).

In UE e, a maggior ragione, nell’euro, i sindacati sono di fatto inutili.

Il problema è appunto che, non essendoci più tutele del livello salariale, i lavoratori perdono progressivamente il loro potere d’acquisto, e le imprese che non riescono competitivamente a vivere di esportazioni vedono ridotto il proprio fatturato e chiudono.

Il consolidamento fiscale volto alla «distruzione della domanda interna» (Monti 2012) – quindi all’impoverimento della nazione – è l’unica politica economica permessa in eurozona per recuperare competitività: l’eurozona è quindi una specie di gioco al massacro dove per competere si comprimono sempre più i salari e, quindi, la domanda aggregata.

Il Position Paper descrive questo impoverimento generale seguito alla deindustrializzazione, e, in modo preoccupante, evidenzia come le aspettative sul reddito futuro sono negative (ovvero domani si pensa si starà peggio di oggi).

Una prospettiva negativa sul reddito futuro implica una maggiore insicurezza; l’insicurezza economica è uno dei principali motivi per cui la classi lavoratrici dei paesi ad economia avanzata si astiene dal generare: il precariato abbatte il tasso di fertilità. Non stupisce che il documento segnali come i paesi dell’Unione Europea abbiano un andamento demografico negativo in controtendenza con il resto del mondo.

Un quarto della popolazione dei paesi appartenenti alla UE è a rischio di povertà ed esclusione sociale.

Parallelamente alla depressione demografica si evidenzia la depressione economica: l’Unione Europea, ed in particolare l’eurozona, rappresentano le aree economico-demografiche più depresse di qualsiasi area economica rilevante del mondo.

Il modello eurounionista è talmente disfunzionale che attrae progressivamente sempre meno investimenti dall’estero e anche quest’andamento risulta molto più accentuato rispetto alle altre aree economiche del mondo.

Inoltre il Position Paper riporta come il mercato unico abbia degli effetti distributivi negativi che ne limitano anche la competitività esterna.

In particolare si documentano grandi divergenze tra i paesi della UE: un alto livello di povertà, di disuguaglianza, e la specializzazione della produzione in settori meno produttivi affligge alcuni paesi – tra cui l’Italia – e non altri, che hanno potuto rafforzare la produzione in settori a maggior valore aggiunto e vedere delle dinamiche interne meno negative.

Il Position Paper prende atto della disfunzionalità dell’eurozona, ne constata il bias deflattivo e certifica i risultati deludenti a livello di competitività al di fuori del mercato unico: insomma, le austere “lacrime e sangue” a cui sono stati sottoposti i lavoratori europei per la salvezza della moneta unica, le relative cessioni di sovranità nazionale e popolare, e tutta l’invadenza dell’elefantiaca macchina burocratica della UE che ingessa la vitalità economica di Stati e piccole e medie imprese, non sono a serviti a nulla. O meglio, sono serviti in sé e per sé: non erano evidentemente mezzi ma fini non dichiarati.

Ossia il mercato unico e l’unione monetaria hanno avuto l’esclusiva funzione – ricordando ciò che ci siamo detti all’inizio di quest’articolo