Vorrei stare a casa, ma non posso

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#iovorreistareacasa è la campagna lanciata da Binario95, il centro di accoglienza che si occupa alla stazione Termini di Roma dei senzatetto, ma che vogliamo immaginare riguardi tutte quelle persone che per motivi diversi non vivono tra quattro mura, quelle mura che in questo momento emergenziale decidono essere il nostro scudo al virus e non solamente le pareti del nostro domicilio coatto. Non è semplice fare un quadro uniforme della situazione dei senzatetto in Italia, perché molto dipende dalle dimensioni dei centri che si prendono in considerazione e dalle diverse realtà del Terzo settore che operano sul territorio, ma ci sono alcuni elementi costanti. Uno fra tutti la sospensione o la riduzione di servizi come mense, bagni e docce, distribuzione di indumenti.

Se sei un senzatetto, lo dice la parola, non hai una casa, quindi non hai la residenza, quindi non hai il medico di base, quindi se stai male cosa fai? Nulla, perché non puoi recarti al Pronto soccorso (le norme lo impediscono), perché il tuo disagio, spesso anche psichico, nella solitudine, difficilmente ti consente di chiamare il 112. Se stanno male, pensano di avere una normale influenza, con il rischio di contagiare i loro amici e la loro vita. Non dobbiamo dimenticare che spesso sono soggetti a rischio, perché avanti con l’età o perché affetti da altre patologie. Per questo fio.PSD, la Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora – come ci spiega il responsabile della comunicazione, Michele Ferraris – è in continuo contatto con le istituzioni, con il ministero del Welfare, per fare in modo che i servizi non siano sospesi, ma, al contrario, vengano potenziati.

Per farlo servono fondi, anche perché sino ad ora gli operatori si sono avvalsi anche dell’ausilio di quei volontari che ora sono, come tutti, chiusi in casa e non possono più prestare la loro preziosa opera perché il volontariato non costituisce valido motivo per l’autocertificazione. L’operazione prevede però tempi lunghi e bisogna procedere di concerto con gli enti locali e dare loro indicazioni per utilizzare o dirottare le risorse a disposizione e fare fronte all’emergenza. Alla schiera dei senzatetto, fa notare Ferraris, si sono poi unite le migliaia di immigrati che a causa dell’ultimo decreto sicurezza si sono trovati fuori legge, in mezzo a una strada: anche loro, per paura, non chiameranno mai il 112, se dovessero sentirsi male.

C’è anche chi ha continuato a adoperarsi sul territorio. È il caso della Comunità di Sant’Egidio, il cui portavoce, Roberto Zuccolini, ci fa sapere che il loro servizio mensa, a fronte di molte chiusure, non è stato sospeso, ma si è adeguato alle norme: distanze di sicurezza, un ospite per tavolo, mascherine per gli operatori, che inoltre proseguono con la distribuzione di pasti per strada. L’aggiornamento delle norme pone nuovi problemi, soprattutto perché la Comunità è impegnata nel divulgare le misure di sicurezza per chi non viene normalmente raggiunto dai media. In questo sono favoriti dalla profonda conoscenza delle persone disagiate con le quali lavorano, sanno dove sono, dove andare a trovarle e sanno anche come stanno vivendo questa situazione emergenziale: la percezione di stranezza è molto più accentuata, tutto risulta poco comprensibile e crea grande disorientamento.

Problemi anche per i braccianti stranieri che lavorano nei campi e vivono in situazioni abitative precarie se non in baraccopoli. Anche in questo caso c’è disomogeneità. Nel Trapanese, ad esempio, molti di loro, durante questa stagione magra per i raccolti, si sono recati nelle grandi città nella speranza di trovare qualche forma di lavoro. Nel Foggiano invece, come ci racconta il segretario generale della Flai Cgil provinciale, Daniele Jacovelli, i braccianti ci sono e alcuni di loro li si vede lungo le strade, magari muniti di mascherina, ma nei luoghi dove poi si recano a dormire e a consumare qualche pasto le condizioni igienico-sanitarie sono lontane anni luce dalle norme governative sulla tutela della salute, in alcuni casi non hanno nemmeno acqua pulita per lavarsi. Si vive in cinque o sei persone all’interno di un solo vano, dove anche le distanze di sicurezza sono impossibili da rispettare. Pur avendo la percezione dei rischi, è tecnicamente impossibile fare prevenzione, motivo per il quale, nonostante al momento non siano stati segnalati casi di contagio da Covid-19 tra i migranti, c’è chi prevede l’insorgere della malattia tra un paio di settimane. Il sindacato, fa sapere Jacovelli, è presente e attivo sul territorio, senza sosta.

E poi c’è il popolo dei campi nomadi. Giorgio Bezzecchi, consulente del Consiglio europeo per il programma di inclusione dei Rom, da un campo comunale di Milano dove vivono gli anziani genitori, racconta che si è diffusa la psicosi, che tutti si sono messi in autoisolamento ancor prima delle misure più restrittive, da loro rigorosamente rispettate. Sono preoccupati anche per il timore che i pregiudizi sui rom, sugli zingari, possano farli percepire come untori, e ad alimentare questo genere di paura ci sono esperienze pregresse che vengono da lontano. Le famiglie si sono chiuse nelle loro piazzole e chiedono esplicitamente a parenti e amici che non vivono nei campi di evitare le visite se non per stretta necessità. Bezzecchi ci fa l’esempio del padre che esce ogni tanto dalla sua abitazione per fumarsi una sigaretta, ma rimane nello spazio antistante, e poi però ci spiega anche che questo accade nei campi nomadi del Comune, ma negli altri insediamenti la situazione è diversa e i problemi sono simili a quelli dei senzatetto.