La disfatta afgana e il silenzio dei guerrafondai

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Una disfatta epocale. Nel silenzio assordante di tutti i guerrafondai.

I talebani tornano, gli occidentali scappano miseramente e i fautori della pace e della democrazia esportata a suon di bombe non spiccicano neanche una parola. Due decenni di guerra, immense risorse pubbliche sprecate, un fiume di panzane raccontate ai cittadini. Tutto per niente. Nel 2003 lavorano a Kabul e ricordo che i miei colleghi pashtun mi dissero che “prima o poi avrebbero cacciato anche noi dopo averle suonate ai colonialisti inglesi e agli imperialisti russi”. La loro bocca sorrideva, i loro occhi no. Sapevano come sarebbe finita. Sapevano che gli occidentali avevano un sacco di soldi e di armi, ma giravano per le strade del loro paese per uno stipendio e per una guerra che in fondo sapevano non avesse nessun senso. Gli occidentali erano lì per far sfogare la loro industria della guerra e la loro propaganda, per piazzare missili a due passi dalla Cina e per un fantomatico gasdotto diretto in Pakistan. Tutto il resto erano panzane dei politicanti

. Gli afgani invece erano ridotti in miseria ma combattevano per un ideale, per la libertà del loro paese. E la motivazione è tutto, anche in guerra. Gli occidentali gli facevano comodo per mettere qualcosa sotto i denti, ma erano certi della vittoria e mi fecero capire anche il perché. Loro avevano qualcosa che a noi manca, il tempo. E il tempo è tutto, anche in guerra. Un giorno per lavoro scesi a Kandahar e mi feci portare davanti alla casa del Mullah Omar. Altro che straccione scappato col tè sul fuoco. La più importante autorità della regione nonché anima dei Talebani. Una villa con vista sulla pianura sabbiosa e su un immenso cimitero di bandierine verdi. Due decenni dopo il fratello del Mullah è uno dei capi dell’avanzata talebana. Il tempo gli ha dato dannatamente ragione. Tornai in Afghanistan nel 2005 a lavorare nella missione che ha organizzato le elezioni. Otto mesi a Faizabad ad esportare la democrazia. Il tutto tra donne adultere uccise a sassate, tra ragazzine che si suicidavano perché costrette a sposarsi con qualche vecchio, tra fiorenti campi di oppio verde acceso, tra signori della guerra col turbante e loro aguzzini, tra strade di fango e riso con pollo e fagioli. Ma anche tra ragazzi e ragazze squisiti. Vittime di qualcosa di più grande di loro. Vittime della follia umana. Della sua avidità, della sua violenza, della sua ottusità. Vittime di un paese lacerato dalla guerra e dalla povertà. Qualche giorno dopo le elezioni finimmo sotto i colpi di mortaio. Le elezioni le avevano vinte i pesci grossi e quelli piccoli davano la colpa a noi per la loro sconfitta. Fummo costretti a fuggire da Faizabad all’alba.

Altro che panzane dei politicanti, la democrazia è una faticosa conquista politica e sociale, non un prodotto che si esporta. Altro che panzane dei politicanti, la pace è una conquista culturale che non abbiamo raggiunto nemmeno noi. Abbiamo solo smesso di fare la guerra a casa nostra perché è molto più comodo seguire in televisione quelle che scateniamo a casa d’altri. E poi quando le vittime della guerra prendono i loro stracci ed emigrano in cerca di una vita decente, allora li schifiamo. Facciamo danni e non ne vogliamo pagare nemmeno le conseguenze. Ipocrisia pura. Quello Afghano è un disastro che si aggiunge a quello Iracheno e a quello Libico. Noi occidentali abbiamo reso il mondo più ingiusto e più insicuro. Il tutto in una cinica e fredda indifferenza generale. Ma la disfatta afgana segna la fine plastica di decenni di panzane che i politicanti hanno raccontato sulla guerra travestita da missioni di pace e sulla democrazia e lo sviluppo a suon di bombe e dollari. Una disfatta epocale testimoniata dal silenzio assordante dei guerrafondai. Speriamo almeno sia l’occasione storica affinché l’opinione pubblica occidentale reagisca e la smetta di farsi prendere per i fondelli. Il mondo ha bisogno più che mai di pace e di democrazia e di giustizia sociale, ma per davvero. Già. Siamo tutti vittime della follia umana. Della sua avidità, della sua violenza, della sua ottusità.

Tommaso Merlo