C’era una volta l’America “poliziotto del mondo”

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Due Americhe si scontrano per decidere la strategia internazionale di Joe Biden.

La débacle dell’evacuazione afghana e il dibattito se far slittare il ritiro a dopo la data fissata del 31 agosto, le ha fatte uscire allo scoperto.

L’impressione di isolamento del presidente, è accentuata dal fatto che la “prima America” si compatta contro di lui. È quella che un ex-generale, il vincitore della Seconda guerra mondiale sul fronte europeo, definì nel 1961 “il complesso militar-industriale”.

Quella formula coniata dal presidente repubblicano Dwight Eisenhower è stata riesumata da Barack Obama nelle sue memorie, a proposito degli scontri memorabili che si consumarono alla Casa Bianca dal 2009 in poi sulla guerra in Afghanistan.

Il “complesso militar-industriale” è molto più di una lobby. Il Pentagono con 715 miliardi di bilancio ordinario gestisce una macchina bellica le cui risorse superano quelle dei dieci Paesi successivi sommate; molto di più è l’indotto economico di tutte le aziende che gravitano attorno; l’indotto politico creato dall’abile disseminazione di basi militari e aziende belliche in quasi tutti i collegi elettorali del Congresso.

Poi c’è l’élite che attorno a questo sistema ha costruito un mondo parallelo di think tank, consulenze private, cattedre universitarie. È l’establishment globalista, organico a una visione bipartisan del ruolo “imperiale” degli Stati Uniti, contro cui Joe Biden si scontrò invano nel 2009-2016.

L’allora vicepresidente di Barack Obama tentò di contrastare le strategie afghane del Pentagono e fu sconfitto. La compattezza bipartisan dell’establishment globalista ebbe come simbolo la decisione di Obama di confermare come segretario alla Difesa un repubblicano dell’era Bush, Robert Gates.

Oggi Biden è molto meno minoritario di allora, e non solo perché il 63% degli americani continua a sostenere il suo ritiro dall’Afghanistan nonostante la débacle dell’evacuazione. Lo shock dell’elezione di Trump nel 2016, la rinascita di una corrente isolazionista di destra nella politica estera, ha fatto uscire allo scoperto anche una nuova leva di democratici con una visione strategica molto diversa da quella che dominò sotto i vari Roosevelt, Truman, Kennedy, Carter, Clinton. Il ricambio generazionale e culturale ha portato alla guida del National Security Council il 44enne Jake Sullivan, fautore di “una politica estera nell’interesse dei lavoratori americani”.

Lo slogan può sembrare trumpiano, in realtà attinge a una corrente teorica che ha solide radici in campo democratico. Paul Kennedy cominciò in Ascesa e declino delle grandi potenze ad avvisare l’establishment americano contro i pericoli della hybris imperiale: ricordando quanti imperi del passato morirono di overstretching, collasso economico per l’eccessiva dilatazione della presenza militare.

Oggi un seguace di quella scuola, Graham Allison, applaude Biden: “Merita un elogio, prende un rischio calcolato per districare gli Stati Uniti da sforzi fallimentari in una missione sbagliata”.

Nella squadra di Jake Sullivan una lettura obbligata in questi giorni è The Long Game di Rush Doshi (altro giovanissimo esponente del National Security Council). È la ricostruzione della lunga marcia della Cina verso la sua potenza attuale: per decenni Pechino ha dissimulato le sue intenzioni, ha esibito modestia nello stile diplomatico, ha concentrato gli sforzi sulla costruzione della sua economia, ha evitato ambizioni irrealistiche e missioni inutili, ha minimizzato le aspettative degli avversari.

Un’altra lettura della nuova generazione ai comandi della politica estera s’intitola Le guerre commerciali sono guerre di classe: un riesame feroce del trentennio globalista in cui le grandi strategie di Washington furono dettate dagli interessi del suo capitalismo, non delle classi lavoratrici. Oggi Biden non a caso viene “riabilitato” da un’icona della sinistra radicale, la deputata Barbara Lee della California, unica a votare contro la guerra in Afghanistan ai tempi di Bush.

Federico Rampini